Approfondimenti - Il Consiglio News Feed

venerdì, aprile 29, 2011

Padania sbranata (seconda parte)

Il cinico gioco di Mosca (abbasso Gheddafi, lunga vita a Gheddafi) non è poi così difficile da capire: prima ha fatto intendere di voler scaricare il rais libico vietandogli addirittura l'ingresso nel paese e favorendo l'impantanamento occidentale in una lunga guerra di posizione, ora il Cremlino preme affinché questa guerra si allunghi il più possibile. La difficile situazione di Berlusconi non ha minimamente preoccupato il duo Putin-Medvedev.

Ed infatti a partire dal voto delle Nazione Unite sulla Libia la posizione di Arcore è precipitata. Il 18 aprile uno dei pezzi strategici più importati dell'arsenale del cavaliere è saltato: secondo il resoconto di Repubblica “Giuseppe Recchi è stato indicato nuovo presidente dell'Eni al posto di Roberto Poli, storico commercialista di Silvio Berlusconi, mentre Scaroni è stato confermato ad. Recchi, scelto personalmente da Tremonti, è uno stimato manager della multinazionale americana General Electric.”[*].

Sarebbe proprio Tremonti il “traditore”, come già a suo tempo segnalato da Il Consiglio (Si veda il post “La sfilata di Tramonti” del 1 giugno 2009), e come indicato dal titolo del pezzo di Repubblica (“Tremonti e l'allarme Usa sull'Eni «Col gas russo spinti troppo in là»”, 18 aprile 2011). Già nel 2008 Tremonti veniva segnalato dall'ambasciatore americano a Roma come “particolarmente convinto dell'esigenza di riequilibrare la politica energetica con i russi”.

Va da sé che una volta scollegata l'ENI da Berlusconi, anche l'entente cordiale tra il cane a sei zampe e Gazprom potrebbe presto entrare in un vicolo cieco.

Sino a ieri Scaroni aveva tenuto testa alle pressioni degli USA riguardo ai rapporti di ENI con i russi. Basti pensare che ancora a gennaio in una intervista su La Stampa, si concedeva il lusso di esprimersi senza mezzi termini riguardo alla possibile sinergia tra il progetto South Stream (portato avanti da ENI e Gazprom ma inviso agli americani) e quello del gasdotto Nabucco (caldeggiato dalla UE):

«C’è una parte “a terra” che potrebbe farli viaggiare paralleli, dalla Bulgaria in su. Un anno fa avevo pensato che si potessero ridurre gli investimenti con un tratto comune. Poi il tema è morto, perché il Nabucco non mi sembra avanzi. Non si può essere sinergici con chi non esiste».

(Scaroni: "Così ci siamo spiegati con l’America", La Stampa 11 gennaio 2011)

Ma oggi, dopo la defenestrazione di Poli e le pressioni di Tremonti rafforzate dalla debilitata posizione politica di Forza Italia, non sarebbe prudente scommettere sulla ripetizione di quelle parole. La posizione del ministro dell'economia è in ogni caso perfettamente coerente con il quadro geopolitico internazionale: tramontata la speranza di un sostegno russo, l'unica mossa che può in qualche modo aiutare ad arginare l'avanzata delle potenze economiche europee nel nord Italia evitando di essere sbranati senza opporre resistenza è quella di un riavvicinamento a Washington.

Meno comprensibile è invece la confusa virata verso Parigi che sta tentando Berlusconi (vedi la novità del coinvolgimento degli aerei italiani nei bombardamenti di Tripoli...) con il rischio di spaccare la sua stessa maggioranza che ora tenta di mettere il piede in troppe staffe dopo aver perso sia quella libica che quella Siciliana (si veda il post “Un cavaliere senza più staffe”): quella anglosassone (Tremonti), quella tedesca (la Lega) ed appunto quella francese.

Mosca dal canto suo non è da meno. Il nord Italia viene certamente visto dal Cremlino come facente parte dell'Europa sia dal punto di vista storico che da quello culturale. Immischiarsi nelle faccende del vecchio continente sarebbe visto da Francia e Germania come un ingresso a gamba tesa nella loro sfera di influenza. Al contrario il miglioramento delle relazioni con le due potenze europee fornisce a Putin il supporto necessario per allontanare la Nato dai suoi confini. Niente lacrime dunque sulla fine della luna di miele dalle parti di un ramo del lago di Como.

Diverso è il caso della Sicilia e del Sud Italia (Puglia in particolare), due aree dove il profumo d'oriente si respira ad ogni piè sospinto: i legami con Bisanzio prima e con la Russia zarista dopo non si sono mai del tutto spenti ed oggi ritornano prepotenti alla ribalta.

A questo proposito basti notare la recente acquisizione da parte di Lukoil del pacchetto di maggioranza della raffineria Isab di Priolo, la più grande in Sicilia (si veda il post “Nel segno dell'Ariete”, 28 febbraio 2011). Una mossa che regala una certa profondità strategica al centro del Mediterraneo Senza scordarci del nostro uomo al Cremlino (si veda il post del 2 dicembre 2010) che ora spinge anche la produzione agricola siciliana nella sua seconda patria (“I prodotti d'eccellenza made in Sicily sbarcano in Russia”, SiciliaInformazioni.com 22 aprile 2011):

Creare una piattaforma Sicilia - osserva Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Mosca e rappresentante in Russia del gruppo Intesa Sanpaolo - deve rappresentare il punto di partenza per attivare il rapporto di collaborazione tra mercato e aziende

Come hanno reagito i russi? “La Federazione russa e' ben felice di accogliere le aziende siciliane nel proprio mercato”: parola di Alexey Meshkov, ambasciatore russo in Italia... o in quel che resta di un'Italia fatta a pezzi.

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[*] Un altro “americano” dopo Marchionne alla FIAT....

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giovedì, aprile 28, 2011

Governo.it

Un articolo come quello di Libero sull'indipendenza della Sicilia (“La Sicilia secessionista vuole l'indipendenza e pure il petrolio”, 23 aprile 2011) merita certo un commento. Un altro, ennesimo commento dopo quelli di SiciliaInformazioni.com (uno a firma del direttore, Salvatore Parlagreco, ed uno a firma di Massimo Costa) e dopo la riproposizione sul sito de L'Altra Sicilia, dove per inciso si invita a fare attenzione non tanto alle presunte dichiarazioni del Presidente Lombardo, ma alle pesanti parole del giornalista, Franco Bechis.

E suggerisce bene L'Altra Sicilia, visto che l'articolo sembra più scritto da un sicilianista impenitente che da un risorgimentale preoccupato del futuro dei suo bel giocattolo unitario. Il Consiglio ha aspettato qualche giorno, per vedere cosa avrebbero detto gli altri per poi aggiungere quello che ancora mancava.

La prima cosa da rilevare è che questo articolo, che Bechis non ha certo partorito da solo ma che crediamo abbia esitato dopo averne ricevuto mandato, ha avuto un'eco perlomeno inusitato: è infatti finito nella rassegna stampa dello stesso governo italiano, sul sito Governo.it!

In pratica lo stato italiano fa pubblica propaganda del suo stesso sfascio dando pieno credito alle parole di Bechis, tanta è la disperazione nel vedersi sbranati vivi da oriente e da occidente. I due post che incorniciano questo, la prima e la (prossima) seconda parte di “Padania sbranata”, non potevano essere pubblicati con miglior tempismo.

Ma vi sono altri due punti di estrema importanza da mettere in evidenza.

Il primo è relativo al discorso sulle accise (il “nodo accise”, come lo definisce Bechis): invito i sicilianisti di casa nostra a leggerlo attentamente prima di parlare senza cognizione di causa della “riduzione del prezzo dei carburanti”:

Lombardo ieri ha spiegato che se facesse la secessione, riscuoterebbe lui in loco quelle accise sui prodotti energetici che attualmente finiscono nelle casse del Tesoro italiano. È vero. E si tratta di 10 miliardi di euro all'anno. Una somma che compenserebbe ampiamente quel che la Sicilia verrebbe a perdere staccandosi dal resto di Italia. La Regione già gode di autonomia allargata e riconosciuta da numerose sentenze della Corte Costituzionale”.

Di petrolio noi ne produciamo pochissimo, e la cosa non cambierebbe sostanzialmente nemmeno dopo la serie di esplorazioni che vengono paventate nei nostri mari. Ne produciamo pochissimo in relazione alla quantità di raffinato, si intende.

Anche quando si dovessero alzare le royalties a partire dal miserrimo 4% attuale, queste non inciderebbero più di tanto.

Quello che dice Bechis è che la gallina dalle uova d'oro sono proprio le accise, le tasse sul raffinato. I nostri veri giacimenti non producono grezzo, ma benzina di altissima qualità. E questa si tassa con le accise che portano attualmente il prezzo del carburante a circa 1,6 Euro al litro.

Tagliare le accise produrrebbe i seguenti effetti: 1) Riduzione delle entrate dello stato, o della regione qualora si attuasse lo Statuto o addirittura l'indipendenza. 2) Salvataggio di Marchionne e del carrozzone FIAT senza che questi apra alcun centro produttivo in Sicilia. 3) Incremento dell'inquinamento atmosferico a livelli ancora più alti di quelli attuali. 4) Assalto ancora più selvaggio ai piccoli giacimenti esistenti nella nostra isola. 5) Aumento della dipendenza da stati esteri produttori, quali Russia e paesi arabi.

Spero che prima di parlare ancora di “benzina a 1000 lire” (o meno: meglio non mettere freni alla provvidenza...) ci si faccia meglio i conti.

Il secondo punto riguarda le considerazioni fatte da Bechis sul Sud Italia:

Se qualche altra regione del Sud volesse togliere il disturbo, è probabile che asciugatesi le lacrime con i fazzoletti di rito il resto degli italiani starebbe meglio. Dalla secessione quasi tutte le Regioni del Sud avrebbero da perdere, e il resto d’Italia si troverebbe più ricco.

Con l`addio della Sicilia sarebbe invece ben altra musica.


Spieghiamo meglio quello che sta dicendo Bechis e che il Governo Italiano ha pensato bene di riportare sul suo stesso sito: il sud in sé non offre alcun beneficio allo stato unitario. La sua funzione è quasi interamente strategica. Cioè: se lo stato italiano si vuole tenere la Sicilia, è ovvio che debba tenersi anche il sud. Immaginate un'Italia che si interrompa a Roma (o, peggio, a Firenze) e poi ricominci a Messina? Durerebbe meno di una notte.

Invertendo il senso del discorso, se perdiamo la Sicilia, faremmo bene a lasciare andare anche il sud, il quale in fondo ci porterebbe (anzi, già ci porta...) solo problemi.

Se poi, come da tempo suggerisce questo blog, immaginiamo che la Sicilia sia già indipendente nei fatti, e che le lotte che vediamo siano proprio per il dominio sul Sud Italia, il senso dell'articolo appare ancora più chiaro: “O ci riprendiamo la Sicilia con la forza, costi quel che costi, o faremmo meglio a lasciare andare anche il sud”.

E questo discorso, ripetiamo, ha trovato spazio tra le pagine del sito del governo di Roma.

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domenica, aprile 24, 2011

Padania sbranata (prima parte)

Il discorso sulla attuale situazione interna italiana iniziato nel post “Oncologia”, può essere completato includendo nel quadro i dettagli del piano politico internazionale. Anche questi infatti hanno subito una recente accelerazione, tanto che certi meccanismi fino ad ora solo intuibili si sono manifestati in maniera palese.

Il primo dei sintomi della suddetta accelerazione è dato dal drammatico evolversi del contrasto italo-francese. La discordia sulle vicende libiche è solo una delle componenti di questo contrasto. La Francia si sta muovendo con rapidità per conquistare le posizioni lasciate aperte dal vuoto venutosi a creare negli interessi padani a causa del continuo regredire del potere anglosassone e della contemporanea crisi delle forze endogene locali, vedi il rapido ed inarrestabile declino di Berlusconi e di tutte le varie forze paramassoniche raggruppate nelle varie P2, P3, chissà persino P4....

Neanche il movimento cattolico nord-Italiano, raggruppato dietro ai vertici della CEI, la conferenza episcopale italiana, messa sotto pressione dallo stesso papato, sembra avere la forza di riempire questo vuoto. E così mentre la FIAT arretra arroccandosi in Nord America dietro l'acquisizione di Chrysler, sono la già ricordata Francia e la potente Germania a trovarsi nella posizione migliore per recuperare le posizioni perse durante il periodo risorgimentale.

Tremonti potrebbe riuscire ad arginare momentaneamente le mire di Sarkozy nei confronti della Parmalat, ma gioiellini meno ingombranti seppure altrettanto significativi stanno già valicando le Alpi. E' il caso dell'industria della moda, dove per vari motivi diverse aziende entrate in crisi d'identità non hanno trovato di meglio che farsi soccorrere dallo straniero: Gucci ed il recentissimo caso di Bulgari sono due esempi. Ma il discorso continua ad allargarsi.

Se ne è occupato di recente anche il Financial Times (“Vicenza's artisans go hell for leather to meet expensive tastes for new rich”, 16 aprile 2011) che parlando della boutique “Bottega Veneta” dà un quadro chiaro e conciso della situazione:

Dove 10 anni fa Vicenza era la patria di 1300 manifatture orafe, ve ne sono ora 600. In alcune aree della città la disoccupazione femminile che hanno sopportato il peso dei licenziamenti, ha raggiunto il 90%. Ma mentre gli artigiani dell'oro di Vicenza perdono il lavoro a favore di lavoro più economico in Cina e chiudono i loro laboratori, un'altra industria italiana si affretta ad assumerli”.

L'altra industria italiana sarebbe quella della pelle, da sempre una forza del paese (niente di nuovo quindi). La novità è che oggi possono permettersi di dare ai lavoratori stipendi più bassi a causa dell'alto livello di disoccupazione. E non solo: oggi i pezzi pregiati di questa industria potrebbero non essere più tanto italiani:

Tra i loro nuovi datori di lavoro troviamo Bottega Veneta, il gruppo per beni di lusso appartenente alla francese PRR

I negozi dell'azienda rappresentano il Made in Italy nelle più prestigiose piazze del mondo, come spiega l'articolo. Ma i guadagni non rimangono certo a Vicenza.

Dall'altra parte, l'integrazione tra industria italiana e tedesca nei settori metalmeccanici si fa sempre più inestricabile, come sottolineato da un altro articolo del Financial Times (“Germany might boost Italian entrerprise”, 17 aprile 2011) in cui si ora si prende ad esempio la Brembo, il primo produttore mondiale di freni per automobili:

Lo sviluppo di relazioni con l'industria automobilistica di fascia alta tedesca ha permesso a Bombassei di difendere i margini dei suoi prodotti, al contrario dei produttori nel mercato di massa in Itali che sono stati quasi interamente spazzati via [anche loro..., ndt] dalla competizione indiana e cinese.
Molto bene: grazie alla cooperazione con la Germania il Made in Italy riesce in alcuni casi a rimanere italiano. Ma anche qui c'è il trucco, un paio di righe più sotto:

Bombassei ha recentemente aperto una secondo fabbrica in Cina, in parte, dice, per soddisfare la domanda delle aziende automobilistiche cinesi per il mercato di fascia alta dei sistemi frenanti. Ma allo stesso tempo anche perchè le aziende automobilistiche tedesche stanno aprendo succirsali in Cina e Brembo vuole esser loro vicino per poterli rifornire.

Più che una collaborazione sembra una totale dipendenza le cui conseguenze non tarderanno a rendersi sempre più evidenti nelle madre patria.

Che dire poi dello scudo russo? La famosa amicizia tra Berlusconi e Putin sembra oramai essersi dissolta. Il presidente russo Dmitri Medvedev non ci ha pensato due volte ad astenersi insieme ai colleghi del BRIC (Brasile, Cina, India, oltre alla stessa Russia) dal voto sulla risoluzione dell'ONU 1973 che ha aperto le porte all'azione occidentale contro Gheddafi (e contro gli affari italiani in Libia). Salvo poi pentirsene per voce di Putin che preme per evitare una ulteriore escalation negli interventi che vedono ora l'Italia in prima fila.

(Fine prima parte.)

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venerdì, aprile 15, 2011

La sputazza

Il dialetto, quello che una volta in classe veniva censurato a suon di bacchettate”. Dice bene Tano Gullo, giornalista dell'edizione palermitana di Repubblica in un suo recente articolo sulla proposta di legge per l'insegnamento della lingua Siciliana nelle scuole dell'isola (“Il siciliano si studierà a scuola. Ma gli scrittori bocciano la legge”, 7 aprile 2011).

Dice bene perché così ammette quello che il suo editore voleva negasse, e cioè che l'italiano non è la nostra lingua. Che la nostra cultura non è “italiana”, e che noi probabilmente italiani non siamo e soprattutto non ci sentiamo, visto che questa splendida lingua di Dante ce la siamo dovuti sorbire a forza di bacchettate.

E dice bene perché così facendo si affianca idealmente al regista Tornatore che nel suo ultimo capolavoro (Baaria) sottilmente affiancava l'insegnamento della lingua italiana nelle scuole del suo paese alla violenza fascista, sottolineando la valenza politica di quella coercizione.

Valenza politica posta in evidenza anche in un'altra scena, quella della salsiccia, in cui all'esprimersi in Siciliano del venditore ambulante, fa da contraltare la perfetta cadenza unitaria dell'ufficiale fascista canzonato che ordina l'allontanamento forzato (ancora una coercizione) dal suo orecchio di quell'idioma.

L'articolo di Repubblica non fa altro che confermare i sospetti che già da tempo Il Consiglio metteva in evidenza (si veda il post “Dialetto Siciliano o linguaggio politico italiano?” del 7 febbraio 2007), che cioè il tentativo di censura della lingua Siciliana insieme a tutta la diatriba sorta intorno al contrasto Siciliano / italiano abbiano un carattere fortemente politico.

Consolo, uno degli scrittori che avrebbe bocciato la legge, la butta direttamente in politica senza mezzi termini tentando di sminuire il provvedimento come indice di una regressione leghista. Tentativo populista ma legittimo, per carità. Aggiunge però che “Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”, ed in questo modo non fa altro che darci ragione.

Se insegnare il Siciliano a scuola equivale comunque a sminuire la lingua italiana, bisogna pur pensare che vi sia una netta contrapposizione tra i due idiomi. Essi non si integrano, come vorrebbe la vulgata generale che relega il Siciliano a semplice dialetto dell'italiano. Consolo si tradisce in un certo senso rivelando un timore nei confronti di un qualcosa che avrebbe la forza di contrastare un suo credo. Potrebbe mai un povero dialetto essere capace di fare questo?

Camilleri, altro scrittore “preoccupato”, precisa meglio: “una lingua, l'italiano, che al 90 per cento è stata l'artefice dell'unificazione del Paese”. Ecco chiarita la transizione: se indeboliamo l'italiano, indeboliamo l'unità. Ed infatti Consolo continua: “Non è che con questa legge si vuole aprire una breccia per dare la stura a un pernicioso revisionismo?

E' sin troppo ovvio che così siamo pienamente entrati in politica. Una politica di amplissimo respiro che va a toccare processi storici di enorme portata che riguardano la stessa storia del Regno Normanno di Sicilia e la sua contrapposizione alle politiche espansioniste occidentali.

La riproposizione del Siciliano non minaccia di aprire il fianco al revisionismo solo per quanto riguarda il periodo risorgimentale, ma anche per il campo ben più vasto dello stesso rinascimento, quel processo storico che segnò la nascita dell'era moderna e per inciso il trionfo dell'italiano sul Siciliano.

Il risorgimento, nel senso di storia d'Italia, in fondo è piccola cosa: Tornatore nel suo film lo assimila ad una "sputazza" che si asciuga sulla sabbia mentre il protagonista di corsa attraversa una grossa fetta della storia unitaria. Secondo quanto dice il bambino, circa mezzo minuto della storia della Sicilia.

E se gli scrittori contrari al Siciliano nelle scuole sono Consolo e Camilleri, classe '33 e '25 rispettivamente, ci dispiace dover notare come i detrattori della Sicilia abbiano oramai i “mezzi minuti” contati.


Basta un solo Siciliano a fare rinascere la Sicilia: del passato rimarrà solo uno sputo.

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lunedì, aprile 04, 2011

Oncologia

La Sicilia è l'unica regione italiana ad essere perennemente commissariata dallo stato centrale tramite la nomina (politica) di uno specifico “commissario” mirata a colmare il vuoto (legale) lasciato dalla disattivazione dell'Alta Corte Siciliana.

Massimo Costa in un recente articolo (“La reale posta in gioco nelle autostrade siciliane”, SiciliaInformazioni.com, 30 marzo 2011) ha evidenziato come la percentuale di ricorsi vincenti presentati da Palermo contro le impugnative di suddetto commissario sia vicina allo zero.

La diatriba tra stato e Regione sulla gestione delle autostrade siciliane ha nuovamente posto sotto la luce dei riflettori la gattopardesca situazione, che a parti culturalmente invertite vede un governo retrivo sbilanciarsi nel tentativo di bloccare il temuto rinnovamento Siciliano.

Il commissario questa volta ha impugnato la legge secondo cui il CAS (Consorzio Autostrade Siciliane) veniva trasformato in Ente Pubblico Regionale. Ma dato che, Alta Corte o non Alta Corte, questa partita si gioca su più fronti, il TAR Sicilia ha risposto con un gesto altamente teatrale... sospendendo lo stato italiano!

E' ancora difficile dire quanto vincente questa mossa si rivelerà nel prosieguo. Intanto l'efficacia del decreto interministeriale del 5 luglio 2010 che aveva disposto la decadenza della concessione tra l’ANAS SpA ed il Consorzio per le Autostrade Siciliane, decreto che nei fatti aveva gratuitamente sottratto la proprietà delle autostrade ai Siciliani, è stata sospesa sino all'udienza del prossimo 22 luglio (“Autostrade, Tar Sicilia sospende decadenza concessione al Cas”, BlogSicilia.it 2 aprile 2011).

Una decisione, quella del TAR isolano, alla quale è difficile non ascrivere una pesante componente politica da inquadrare nel decennale scontro tra il premier Berlusconi ed il potere giudiziario e nella recente alleanza tra il Presidente Lombardo e Fini (o meglio i poteri che dietro di lui si agitano) in funzione squisitamente anti-berlusconiana.

La decisione del TAR indica così una ulteriore escalation dello scontro istituzionale in atto nel paese, uno scontro che forse non può più essere definito nemmeno “istituzionale” tanto efferato esso è diventato: Michele Santoro dopo aver ascoltato in trasmissione Cicchitto e Belpietro descrivere chiaro e tondo la natura politica dello scontro con la magistratura, ha dichiarato che “se è così, se la diagnosi è corretta, le istituzioni sono finite” (“Michele Santoro ascolta Cicchitto e Belpietro”, SiciliaInformazioni.com, 1 aprile 2011).

La “disgrazia” della guerra in Libia (Si veda il post "Surriscaldamento Globale") è stata probabilmente la causa della scintilla che ha portato a questo passo avanti nella dissoluzione dello stato italiano unitario. Il sito di Sky, l'azienda del magnate australiano Murdoch, da sempre nemica di Mediaset, tiene sempre in bella evidenza un articolo che descrive quanto stia tremando il nord Italia a causa della situazione nord-Africana (“Dalla Juve a Unicredit, ecco chi trema con Gheddafi”, 21 febbraio 2011), e non è certo un bel leggere per i padani.

Come se non bastasse, la banca dati del fisco italiano sta restituendo una figura dell'evasione fiscale sul territorio nazionale che non lascia scampo alle aziende settentrionali (“Radiografia dell’evasione in Italia: maglia nera a Messina e Caserta”, Corriere.it 4 aprile 2011):

“[A nord] le somme che non vengono versate nelle casse dell'erario sono molto elevate, mentre nelle zone povere, anche se l'evasione è alta, si può recuperare meno.

Al sud l'evasione è molto più diffusa ma anche estremamente parcellizzata, ed il suo recupero potrebbe rivelarsi poco efficace e costoso. La conseguenza è che lo stato non potrà fare altro che concentrare gli sforzi per rastrellare il denaro necessario al suo stesso sostentamento al nord, dove a quanto pare una parte dei mancati pagamenti è già da addebitare ad aziende che a causa della crisi semplicemente non possono pagare.

L'aumento della pressione non farà altro che esacerbare la crisi bloccando ulteriormente il sistema produttivo padano: lo stato che divora se stesso trasformandosi in cancro.

Tutto questo mentre un altro uragano sta per avvicinarsi.

La continua crescita del costo delle materie prime (petrolio, grano su tutti) e la conseguente inflazione rischiano di portare il sistema finanziario globale ad un nuovo collasso. Per evitare che ciò accada si può fare finta di niente (come del 2008) oppure si può seguire un'altra strada: quella di aumentare i tassi d'interesse incrementando il costo del denaro per raffreddare l'economia.

In pratica questa misura pregiudicherà nuovamente la crescita, ma non agirà sulle diverse economie nazionali allo stesso modo. Essa scaverà un solco ancora più ampio tra le economie “forti” quali ad esempio la Germania, e quelle deboli che saranno scaraventate in una nuova spirale di recessione. Tra queste ultime direi che possiamo porre anche l'Italia.

La BCE (la Banca Centrale Europea), secondo il Financial Times, dovrebbe alzare i tassi d'interesse già nei prossimi giorni (“The punch bowl has to go but the timing is key”, 1 aprile 2011):

Prima che l'economia si surriscaldi generando inflazione, le banche centrali devono iniziare ad alzare i tassi d'interesse. (...)

A Jean-Claude Trichet della BCE piace esprimersi attraverso parole in codice durante la sua conferenza stampa mensile. Il mese scorso ha detto che la BCE rimaneva in “forte vigilanza”, che era un promessa virtuale di un incremento dei tassi questo mese.


Con la inevitabile conseguenza di velocizzare la propagazione delle metastasi.

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giovedì, marzo 31, 2011

Con l'acqua alla gola

E così pare che nel medio-oriente sia in atto un nuovo 1848, una rivoluzione contro la tirannide e per la democrazia. Una primavera araba (ma non islamica). Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Bahrein, Yemen: stiano attenti i despoti, che questi baldi giovani armati solo di Facebook e Twitter ve lo faranno tanto.

Il Corriere della Sera, Repubblica, e poi tutti i media occidentali non sanno più come scriverlo. Lo urlano a squarcia gola: “Guardate, guardate qui: queste sono tutte rivoluzioni spontanee, fatte dalla gente!”

Noi certamente non pretendiamo di capirne e di saperne più di loro, professionisti del settore. Però RussiaToday ha mostrato delle immagini che mettono un po' in crisi questo modello.



Quei cannoni ad acqua che vedete non sono entrati in azione a Damasco, a Sana'a o a Manama. Quello è il Belgio e secondo RT.com (“Europeans against austerity cuts: thousands clash with police in Brussels”, 25 marzo 2011) i manifestanti erano circa 20,000. Il commento finale del giornalista ci confonde:

Con una povertà crescente e milioni di disoccupati in tutta Europa, le gente sembra perdere la pazienza con dei politici che non sembrano in contatto con la realtà”.

Se in questo commento sostituiamo Europa con Egitto, per esempio, la frase potrebbe benissimo apparire in calce ad un pezzo su queste benedette rivoluzioni quarantottine al gelsomino.

Solo che nel caso del Belgio nessuno ha parlato di rivoluzione contro una dittatura, di gioventù che si da appuntamento per protestare tramite Facebook.

E nessuno ne parla neppure ora che le proteste sono arrivate a Londra (“Londra invasa dalla protesta contro i tagli”, Corriere.it 26 marzo 2001). Non ne parlavano negli stessi termini quando le abbiamo in viste in Grecia o nel caso del Portogallo.

Invece per il medio oriente, sono riusciti a farci entrare pure la petizione (online, ovviamente) di 100 intellettuali per il suffragio universale negli Emirati Arabi (“Emirati petition ruler for democratic eletion” Euronews.net, 9 marzo 2011) !

Due pesi due misure: una lente di ingrandimento per osservare il medio-oriente ingigantendo i motivi della rivolta sino alla guerra civile, ed un cannocchiale capovolto per nascondere l'Europa, dove le proteste sono “per i tagli” e non contro il regime.

Viene il sospetto che più che ad una rivolta solo araba si stia assistendo al crollo dell'intero sistema, con le diverse fazioni, già con l'acqua alla gola, che soffiano sul primo focolare che capita per aggrapparsi ad una scialuppa che prima o poi faranno rovesciare.


Di guardia alla scialuppa

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mercoledì, marzo 30, 2011

La croce del Presidente

La pulce nell'orecchio che mi mise l'amico Abate continuava a tarlarmi. Non che io fossi un esperto di croci e crocifissi, ma quell'oggetto posto tra i libri dell'ufficio di Raffaele Lombardo sembrava abbastanza familiare.

Esclusi subito che si trattasse della croce di S.Damiano, quella cara a S.Francesco D'Assisi per intenderci, difatti confrontando la conformazione si nota subito la loro differenza.

Decido così di mettermi alla ricerca su internet e dopo qualche minuto mi imbatto su un'oggetto ligneo decorato nella cui descrizione vi era scritto "croce di pentecoste" molto simile a quella posseduta dal Presidente.

Certo di aver trovato la strada giusta, approfondisco la ricerca e scopro che tale oggetto viene venduto su un noto sito di articoli religiosi dell'Ortodossia russa...

Fingendomi un cliente, invio un email al negozio allegando l'immagine che ritrae la foto della croce di Lombardo e chiedo se posseggono l'oggetto in questione. Dopo qualche giorno arriva la risposta: "abbiamo un articolo che gli somiglia", con sopresa noto che mi indirizzavano sempre alla "croce di pentecoste", la stessa scovata su internet che poi ho scoperto essere anche un link al loro sito.

Seguendo il filone e la linea secondo la quale nella libreria di Lombardo vi sarebbero dei testi che in qualche modo indicano la via politica che Lombardo sta percorrendo e ben consci dei sempre più stretti legami tra l'imprenditoria russa e la Sicilia (dalla Lukoil alla Windjet, passando per la Gazprom fornitrice del rigassificatore di Porto Empedocle e le visite della diplomazia di Mosca) si può ipotizzare che l'esposizione di quella croce russa (probabilmente donata in una delle visite) sia un messaggio per ribadire i rapporti speciali tra la Sicilia e la Russia.

Raffaele d'Agostino

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giovedì, marzo 24, 2011

La spia che venne da occidente

Recentemente, parlando della funzione di “sutura” esercitata nel Mediterraneo dalla Sicilia (si veda il post “Filo da sutura”), abbiamo rilevato come nel quadro geopolitico dell'Italia repubblicana questa vocazione si sia manifestata in ambito prettamente politico con il fenomeno del “compromesso storico”, termine che viene di solito allacciato all'attività di Aldo Moro, ma le cui radici si possono rintracciare proprio nel sentimento autonomista siciliano, che non è come qualcuno vuole far credere (o pretende di credere) un sentimento isolazionista. Tutt'altro.

La tendenza al compromesso in verità non è altro che l'inevitabile strategia che consegue all'obiettivo principale di quella funzione di sutura già discussa: l'obiettivo dell'inclusione, come opposto all'emarginazione ed all'inevitabile scontro tra le parti. L'Autonomia Siciliana è inclusione poiché se una terra punto di incontro tra idee diverse vuole essere autonoma, deve essere capace di pacificare le sue componenti includendole nel compromesso che deve essere raggiunto per potere attuare detta autonomia.

Come già detto, è questo meccanismo il vero nemico di un occidente votato alla conquista ed alla distruzione del diverso da sé. Ed è per questo che politici come Aldo Moro o Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione Siciliana appartenente proprio alla corrente di Moro, hanno pagato con la vita il loro sgarro.

Oggi Raffaele Lombardo ha potuto passare indenne attraverso le stesse forche caudine solo perchè ha avuto la “fortuna” di piazzare la sua azione in un momento di crisi irreversibile per l'occidente.

Dall'altro lato invece Silvio Milazzo è probabilmente sopravvissuto ai suoi spericolati colpi di testa “autonomisti” semplicemente perchè sono riusciti a fermarlo in tempo.

Alcuni dettagli di quel periodo ci suggeriscono quanto il meccanismo che lo eliminò (per fortuna solo dalla scena politica) possa essere collegato, almeno ideologicamente, agli omicidi Moro e Mattarella ed alla vendetta occidentale.

Non è certo questa la sede per dilungarsi sui dettagli del panorama politico siciliano di quel dopoguerra [*]. Basterà solo accennare come a livello locale il compito di isolare all'interno della DC i “notabili” calatini (Sturzo, Scelba, lo stesso Milazzo) tagliando le ali a livello nazionale a De Gasperi fu perfettamente espletato dalla corrente catanese dello stesso partito, il cui ultimo esponente (attualmente sindaco di Bronte) continua tutt'oggi a combattere lo stesso tipo di “compromesso”.

Con la loro azione i “catanesi” (Magrì, Drago, Lo Giudice, un giovane Firrarello – per la verità originario di S. Cono) isolarono Scelba e costrinsero un Milazzo imbevuto di indipendentismo al punto giusto ad una azione disperata, quella cioè di dare vita ad un governo autonomista sostenuto dalle sinistre (più o meno la stessa situazione che troviamo oggi all'ARS).

Questa sua “azione disperata” fu neutralizzata da uno stratagemma ideato da un veneto trapiantato in Sicilia: Graziano Verzotto. Mandato giù negli anni 50 da Fanfani (nemico di De Gasperi) a mettere ordine nel partito democristiano, costui resterà in Sicilia per parecchi decenni, decenni che lo vedranno coinvolto in altri casi eclatanti, tra i quali la morte di Mattei.

Lo stratagemma ce lo racconta lo stesso Verzotto, con il tono tronfio da eroe che si compete ad un salvatore della patria (padana), nel suo recente libro “Dal Veneto alla Sicilia” (“Graziano Verzotto, l'«uomo dei misteri»”, Corriere.it 13 maggio 2008):

Verzotto studiò «la strategia migliore per mandare a casa Milazzo e la sua giunta». Nelle stanze ovattate dell’hotel delle Palme convinse il barone Majorana ad abbandonare Milazzo con la promessa della presidenza. Venne architettato anche un atto di corruzione, e un comunista ci cascò accettando 100 milioni di lire. Scoppiò un putiferio e la strana giunta Milazzo fu spazzata via.

La cosa che ci interessa è però quella raccontata dopo:

I complimenti più sorprendenti per la fine di Milazzo, Verzotto, divenuto segretario della Dc siciliana, li ricevette dal boss Lucky Luciano. Gli si avvicinò nel bar dell’hotel delle Palme. «Parlava di politica mostrando una conoscenza straordinaria di fatti e personaggi».

Il fatto che Lucky Luciano si fosse avvicinato a Verzotto per complimentarsi la dice lunga su quale sarebbe stato il piano B nel caso il cui il signorotto veneto avesse fallito.

Ma chi era realmente Lucky Luciano? Secondo la storiografia ufficiale, un potentissimo boss mafioso siculo-americano che tra l'altro fornì l'ispirazione a Coppola per il suo “Padrino”.

Uno scrittore inglese (Tim Newark) la pensa in modo molto diverso (“The Dudfather: gangster who inspired Vito Corleone was a fake”, SWNS.com 5 gennaio 2011):

“La triste verità è che Lucky Luciano era un decaduto senza i soldi o il potere per essere quello che si diceva di lui. Anche se lo fosse stato, la mafia non avrebbe lavorato con lui proprio a causa del suo profilo pubblico.”

Allora perchè tutto questo mito intorno a quest'uomo? La risposta, forse risiede nel titolo del libro:

Lucky Luciano, assassino mafioso ed agente segreto.

Pare ci siano seri indizi sul fatto che il nostro lavorasse per l' “Occidente” insieme a tanti altri suoi colleghi il cui compito era quello di impedire la “sutura”.

Milazzo, come Moro e come Mattarella, non fu fermato da un complotto italiano. Contro di lui si stava già muovendo l'intero apparato da guerra anglosassone, quell'apparato di cui l'Italia risorgimentale era solo una propaggine. E la Sicilia (autonoma) la sua spina nel fianco.


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[*] Sulla situazione politica siciliana del tempo posso consigliare il breve e preciso “La mia verità sull'Operazione Milazzo”, di Pietro Cannizzo Sturzo – Mare Nostrum Edizioni, 2008.

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domenica, marzo 20, 2011

Peggio tardi che mai

Ieri, 19 marzo, mentre su Tripoli cominciavano a piovere le bombe, Raffaele Lombardo dall'Albergo delle Povere di Palermo ha lanciato la costituente non per una nuova stagione dell'Autonomia Siciliana (tante volte sussurrata ma mai attuata) bensì per un altro (ennesimo) partito del sud.

Ennesimo partito che in realtà risulta essere quello vero, quello che da anni era stato programmato ma che si era sempre posticipato nell'attesa del momento propizio, ora catalizzato dallo scoppio delle ostilità nel Mediterraneo. Il partito vero: ripetiamolo nella effettiva consapevolezza che quei prematuri epigoni sorti qui e lì non siano altro che degli specchietti tattici volti a sminuire la temuta creatura del Presidente della Regione Siciliana, pre-destinata a spaccare l'Italia facendo da contraltare alla Lega Nord.

Tutto scritto, dunque. Tutto facile, sembrerebbe. Se non fosse per quel simbolo alle spalle di Lombardo. Che vorrebbe dire?

Malgrado molti facciano a tutt'oggi orecchie da mercante, non è più possibile tacere su quello che tutti vedono: lo scontro strisciante tra Napoli e la Sicilia, uno scontro congelatosi nel tempo e rimasto fermo a 150 anni fa. Ibernato, ma pronto a risvegliarsi ed ad indebolire il corpo di quella che presto potrebbe essere la nuova realtà politica nella quale confluirà la nostra isola.

E' ovvio che il leader siciliano ci vada con i piedi di piombo. Solo che in questo modo si rischia di cadere nel nulla e di tornare a creare qualcosa di artificiale, fondato appunto sul nulla, sperando che poi la strada la si trovi andando. Se la storia degli ultimi 150 anni dovrebbe insegnarci qualcosa è proprio di evitare a tutti i costi di rimanere intrappolati in una di quelle “espressioni territoriali” che sono andate tanto di moda nel XX secolo.

Ed invece i presupposti ci sono tutti, a partire da quella cartina che nella sua vuota banalità cancella millenni di storia da un lato e dall'altro dello stretto, quasi che si preferisca risolvere quel conflitto annullando i due lati dell'equazione invece di provare a sommarli.

I discorsi non dicono di meglio. Dichiarazioni come quella secondo cui la nuova formazione dovrebbe «perdere il suo connotato di partito siciliano», se da un lato tradiscono il (giusto) timore da parte di chi le pronuncia di suscitare un rigetto partenopeo, dall'altro gettano benzina sul fuoco del Sicilianismo, un fuoco che comunque vadano le cose non si spegnerà.

Peggio quando più in là si prende il delicatissimo argomento del nome del partito: «Io credo che il termine “meridionali” dovrebbe esserci». Una auto-segregazione assolutamente inaccettabile per chi vede il discorso dal punto di vista storico, l'unico punto di vista che può dare senso al progetto di uno stato che comprenda sia la Sicilia che il sud Italia.

Assimilando quel termine non facciamo altro che accettare la subalternità nella quale ci ha confinato il risorgimento, rendendola strutturale culturalmente e fissandola nell'immaginario collettivo: una nazione che nasce già sconfitta, che vuole pervicacemente rimanere colonia.

Un altro Sud Sudan, una ennesima Corea del Sud, un astruso Nord Dakota. I nostri padri fondatori normanni lottavano per conquistare gli imperi, da oriente ad occidente. Noi stiamo diventando una improponibile troncatura geografica.

Si corre il rischio di cancellare quello che nemmeno i Borboni si sarebbero mai sognati di cancellare: la gloriosa storia del Regno di Sicilia, comunque la si voglia vedere implicitamente incastonata anche nel Regno delle Due Sicilie.

Ieri, in un luogo il cui nome già di per sé suggerisce privazione, il popolo Siciliano (o Duo-Siciliano che dir si voglia), da Palermo a Napoli, dopo molti ritardi alla fine è stato castrato.

Ma non arrendiamoci ancora: una insperata erezione dell'orgoglio rimane sempre possibile. Presidente, faccia uno sforzo.


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sabato, marzo 19, 2011

Guerra tra cani

Non c'è da meravigliarsi: era solo questione di tempo prima che l'instabilità dovuta al crollo dell'occidente arrivasse sino al Mediterraneo.

Asia Centrale, Medio Oriente, Corno d'Africa sono già da tempo sconquassati dal contorcersi delle spire dell'impero morente. Le uniche zone “pacifiche” sono quelle dove un nuovo ordine si è già instaurato, sotto il controllo cinese: dopo i tumulti finanziari dei passati decenni il sud-est asiatico gode di una situazione che per il momento potrebbe definirsi “sotto controllo”.

Ora tocca a noi.

Basta rileggere attentamente un passo fondamentale della risoluzione numero 1973 dell'ONU riguardante la Libia per capire come oramai il sistema sia in caduta libera e senza paracadute: secondo detta risoluzione gli Stati «potranno agire a livello nazionale o tramite organizzazioni regionali». In altre parole, l'ONU si auto-esonera da qualunque funzione di supervisione e da il via libera ad una vera e propria guerra non contro la Libia, ma per la spartizione della Libia. Le Nazioni Unite con queste poche parole hanno abdicato alla loro funzione di concerto, una funzione che per quanto spesso puramente fittizia fungeva almeno da valvola di sfogo di certe “pulsioni”.

Il tocco da maestro è comunque quello dei paesi astenuti (manco a dirlo: Russia, Cina, Brasile, India e soprattutto Germania), che ora staranno alla finestra a guardare USA, Gran Bretagna, Francia e, per quello che può contare, una moribonda Italia scannarsi a vicenda non solo per il petrolio libico ma anche per mettere un piede nel Mediterraneo (GB, Francia) o per cercare di tenercelo (Stati Uniti, Italia).

Chi ancora non aveva capito cosa stava succedendo, deve ricollegarsi alla strana ritrosia degli americani a dare corso ai fatti dopo tante minacce di intervento ed alla secca bocciatura di Gheddafi da parte dei russi, che a quanto pare d'ora in poi vieteranno al rais ed ai suoi familiari di mettere piede entro i confini della federazione: col passare dei giorni il sospetto di certi accordi sottobanco, ventilati tra le righe anche dal Financial Times (si veda il post “Un Cavaliere senza più staffe”), si sono fatti sempre più forti facendo saltare i nervi a Sarkozy ed a Cameron a fronte della ritrosia americana (“Libia, il risiko della risoluzione Onu: Francia ed Inghilterra in prima linea, Usa e Italia nelle retrovie”, IlFattoQuotidiano.it 18 marzo 2011):

Francia e Gran Bretagna, comunque, sembrano in prima linea. Solo in seconda posizione, invece, gli Stati Uniti: l’ambasciatrice Usa all’Onu, Susan Rice, ha detto di non voler parlare di “dettagli operativi”

La Sicilia, manco a dirlo, si trova in mezzo e non potrà che barcamenarsi tra i contendenti sino a quando non sarà abbastanza forte non solo da poter controllare il proprio territorio, ma anche da assolvere a quella funzione di sutura che spesso nei secoli ha ricoperto (si veda il post “Filo da sutura”) e che specialmente nel medioevo è stata per molto tempo garanzia di un certo equilibrio tra oriente ed occidente.

I prossimi delicatissimi mesi potrebbero trasformarsi in una prova durissima: la situazione di Lampedusa, sottoposta alle angherie della cosca padano-romana, è già drammatica. Noi dobbiamo affrontarli nella convinzione che sotto queste tribolazioni sin da ora una nuova Sicilia è pronta per nascere, una Sicilia che ricollegandosi alle sue tradizioni millenarie potrebbe risorgere ed essere all'altezza del compito che la storia le ha assegnato.

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