Approfondimenti - Il Consiglio News Feed

domenica, novembre 29, 2009

Il generale ci va giù duro

Nel precedente articolo (“Un tacchino indigesto”) era stato citato un pezzo apparso sull'Economist del 21 novembre 2009 (“A regional cockpit”) che riportava la notizia di un incontro segreto tra i due maggiori rappresentanti del contingente di occupazione americano (il generale Raymond Odierno e l'ambasciatore Christopher Hill) ed il generale iraniano Qassem Suleimani, incontro smentito dai due protagonisti a stelle e strisce.

Chi vada a controllare oggi sul sito del settimanale inglese lo stesso articolo, troverà in cima un'avvertenza:

Editor's note: This is an abbreviated version of the story we published in the print edition of November 21st. For the background to the changes, see the article published in the issue of November 28th.

(Trad., Nota editoriale: Questa è una versione abbreviata della storia da noi pubblicata nell'edizione cartacea del 21 novembre. Per i retroscena dei cambiamenti, vedere l'articolo pubblicato nell'edizione del 28 novembre)

L'articolo del 28 novembre in questione (“Ci eravamo sbagliati?” - da notare il punto interrogativo...) spiega che “Il generale David Petraeus, al Comando Centrale americano, ha negato che l'incontro abbia avuto luogo in termini così energici ed inequivocabili” che la redazione ha “liberamente” deciso di rimuovere dal pezzo pubblicato in rete tutti i riferimenti al suddetto incontro.

Una “auto”-censura del genere spiattellata in modo tanto plateale al mondo intero, condita da quel punto interrogativo e da ulteriori dettagli che danno forza alla versione pre-censura (“Al nostro corrispondente a Baghdad è stato riferito di questo meeting, che si dice abbia avuto luogo all'inizio di settembre, prima da un politico iraqeno di primo piano con stretti legami con gli iraniani. Tutto questo è stato confermato da un ufficiale americano di alto livello [“senior”] nella posizione di sapere se un meeting di questo tipo avesse avuto luogo”) danneggia ancora di più l'immagine dell'amministrazione americana in Iraq.

Questa settimana alla redazione dell'Economist hanno poi deciso di rincarare la dose e sono andati in edicola usando armi più sottili:



La copertina illustrata sopra non poteva essere più dissacrante: essa mostra un Obama sconsolato in procinto di uscire a testa bassa dal Medio Oriente e dall'Asia centrale, dove la sua presenza è oramai solo un'ombra. Certo, l'insulto alla nuova amministrazione iraqena non manca: dal famoso lancio di scarpe anti-Bush abbiamo imparato che il mostrare una suola di scarpe è un grave insulto in quei paesi. Ecco perchè ora vediamo il piede di Obama piantato sopra lo stesso Iraq.

Qualche pagina più in là viene poi pubblicata la solita vignetta satirica (Originale qui):



Il primo soldato chiede “Perchè il presidente Obama prende così tanto tempo per annunciare il suo piano per l'Afghanistan?”. Dalla cima dell'Hummer l'altro risponde: “Forse perché la sua strategia di uscita doveva essere tradotta dall'originale Russo

Altra rivelazione? A prestare fede al vignettista gli USA starebbero per ritirarsi anche da li. Rimane da vedere se quell'“originale russo” sia da riferirsi solo all'epilogo della guerra lasciata a metà dai sovietici, o anche a qualche accordo di oggi con la Russia di Mevdev e Putin.

Questa voglia di “vuotare il sacco” dell'Economist suona strana, soprattutto se messa a confronto con la testarda insistenza del Financial Times a rimanere su posizioni oramai perse (vedi il titolo apparso sulla versione cartacea del 27 novembre scorso e sempre citato nel post “Un tacchino indigesto”: "L'emirato pagherà caro per un lungo tempo a venire", indirizzato agli arabi ribelli degli EAU).

Il ritiro americano dalla scena internazionale sta andando più o meno come si era anticipato in questo blog (si veda ad esempio il post “Pericolo di crollo”). A suo tempo, si era anche parlato di un possibile epilogo violento sul modello sovietico (si veda anche il post “Cime tempestose”). Queste “divergenze di vedute” manifestate “in termini così energici ed inequivocabili” continuano a spingere in quella direzione.


Una delle sezioni censurate dall'articolo incriminato. Nel riquadro, le richieste apparentemente fatte dagli americani agli iraniani (si veda il post "Un tacchino indigesto")

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venerdì, novembre 27, 2009

Un tacchino indigesto

Il 25 novembre 2009 sarà ricordato come una data storica nei nostri libri di storia. A termine di un discorso riguardante la situazione economica generale, il governo di Dubai ha annunciato che ritarderà il pagamento di una rata del debito di una delle principali aziende pubbliche dell'emirato, Dubai World.

La bomba è stata sganciata alla vigilia di una importante festività musulmana, motivo per cui le borse del medio-oriente sarebbero rimaste chiuse sino alla prossima settimama. Nel frattempo anche a New York le contrattazioni si sono interrotte per il giorno del ringraziamento (26 novembre). In altre parole, il tacchino a Wall Street quest'anno andrà di traverso a tutti.

E le ricorrenze non si fermano qui, perchè tra un altro paio di giorni negli Emirati Arabi sarà l'anniversario della fondazione della nazione (3 dicembre). Ma al contrario di come strillano i giornali da noi, che parlano di un collasso dello staterello, non è detto che i datteri vadano di traverso ai pii musulmani.
Qualche interessante particolare è stato aggiunto oggi:

Un ufficiale finanziario di Dubai di alto livello ha detto che l'emirato si aspettava pienamente la ricaduta a causa dei suoi problemi di debito ed ha assicurato i creditori stranieri che la richiesta di Dubai World di posporre il pagamento su una parte dei 60 miliardi di dollari è stata “attentamente pianificata” (Associated Press, 27 novembre 2009)

Un piano ben preciso quello di darsi la zappa sui piedi a pochi giorni da una ricorrenza tanto importante?

Nessuno si aspettava una tale svolta tra i grattacieli del DIFC (il centro finanziario di Dubai) o tra quelli delle borse di New York, Londra o Tokyo. Si era sempre stati sicuri che i ricchissimi vicini di Abu Dhabi avrebbero turato tutte le falle aperte dalle cicale della famiglia Al Maktoum (i regnanti di Dubai). Fino a l'altro ieri.

Il Financial Times, pieno di rancore, oggi se ne è venuto fuori con titoli minacciosi (“L'emirato pagherà caro per un lungo tempo a venire” il titolo sulla carta stampata per questo articolo, 27 novembre) ed ammettendo tra le righe si essere stato fatto fesso:

Che sia forse questo il modo di Abu Dhabi di vendicarsi di Dubai per gli eccessi degli anni del boom? Ne dubito. La rivalità tra i due emirati è meno importante delle implicazioni della caduta di Dubai. Il costo per assicurare il debito di Abu Dhabi è aumentato a seguito dell'annuncio di Dubai.

Il che vuol dire che proprio lo sceicco di Abu Dhabi, malgrado avesse con sè i soldi per pagare, deve aver favorito la decisione secondo una precisa strategia ed al culmine di un cammino che lo ha portato ad allontanarsi sempre di più dall'occidente, dopo secoli di oppressione inglese (gli EAU erano un protettorato inglese sino agli anni 70).

La vendita delle azioni della Barclays Bank, la banca dei Rockfeller, che ha quasi messo sul lastrico la potente istituzione finanziaria, il rifiuto ad accettare una moneta unica sul modello europeo imposta dagli anglosassoni a tutta la penisola arabica (se ne era già uscito l'Oman, si veda il post “Alla conquista della sovranitá”), l'accordo nucleare con i francesi ed il viaggio dello sceicco di Dubai a Mosca nell'aprile scorso, non possono lasciare spazio a fraintendimenti politici.

Ora la ribellione ha toccato l'apice, e gli arabi si rifiutano di pagare un debito loro imposto con la forza dalle elite finanziarie occidentali. Una minaccia che altri avevano ventilato, dall'Islanda, alla Grecia, all'Ungheria, ma che ad Abu Dhabi sono i primi ad attuare.

I contorni politici della vicenda sono ancora più eclatanti. Se decido di non pagare il mio estortore, vuol dire che me lo posso permettere, che ho la forza per fronteggiare le sue ritorsioni. In altre parole, l'impero è crollato e la grande ritirata è iniziata. Non è solo Dubai che non pagherà il suo debito. Presto tutti gli altri verranno a ruota a calpestare il cadavere puzzolente del mostro ed a spezzare le catene. Siamo liberi.

Le pezze messe a nascondere quello che oramai è sempre più evidente non bastano più. Gli Usa sono in piena ritirata dall'Iraq e presto lo saranno anche dall'Afghanistan.

L'Economist riferisce di un incontro segreto, smentito dalle autorità americane, tra le due più alte cariche statunitensi in Iraq (il generale Raymond Odierno e l'ambasciatore Christopher Hill) ed il generale iraniano Qassem Suleimani, il responsabile di tutte le azioni di contrasto alle aggressioni militari USA contro la repubblica islamica.

L'argomento di discussione, sempre secondo quanto riferito dal settimanale inglese, è clamoroso (“A regional cockpit”, 21 novembre 2009):

“Gli americano vogliono un un'uscita sicura, senza razzi di provenieza iraniana o bombe ai ai lati delle strade ad aiutarli a fare prima”

In pratica, gli americani avrebbero chiesto di non essere umiliati nella ritirata.

Anche la dissolvenza della minaccia infinita Bin laden e la sua rimaterializzazione nel reo confesso già in mano americana e prossimo al processo KSM (Khaled Sheik Mohammad) di cui abbiamo già discusso (si veda il post “Corso di fotografia”), sembra usare lo stesso linguaggio.

L'amministrazione di Washington deve giustificare all'elettore americano la ritirata dichiarando vittoria nella “guerra al terrore”. Processato il responsabile di tutti i mali, non vi è alcun motivo di continuare a spendere soldi (e vite umane) in Asia Centrale.

Il Mediterraneo dovrebbe seguire a ruota. Le increspature della decisione presa ad Abu Dhabi sembrano averci già raggiunto:

È stata revocata dall'amministrazione comunale di Niscemi, nel Nisseno, l'autorizzazione all'installazione del sistema di un'antenna per la telecomunicazione satellitare della marina militare americana al servizio della base di contrada Ulmo che sarebbe dovuta sorgere alla periferia del centro abitato.

Ansa di oggi, 27 novembre 2009.

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giovedì, novembre 26, 2009

Scienza esatta

Dopo aver avallato truffe quali il buco dell'ozono, la genetica (si veda il post “Ritorno a Camico”), l'estinzione dei dinosauri a causa di un meteorite, ed il riscaldamento globale, la fiducia nei confronti della scienza come soluzione dei problemi materiali e persino morali dell'uomo è entrata in una fase calante che potrebbe non vedere più alcuna risalita.

Tramite la statistica oggi lo scienziato può dimostrare di tutto. La statistica permette di piegare la realtà alle nostre voglie demiurgiche nascoste. Permette di creare una verità artificiale capace di accodarsi ai gusti del momento: se voglio dimostrare che i siciliani sono fessi, ne prendo cinque a caso e se tre hanno un quoziente intellettivo inferiore alla media il gioco è fatto.

E' su questa falsa riga che alcuni ricercatori delle università di Catania, Palermo e Messina, analizzando lo sviluppo di tumori tiroidei nella popolazione dell'isola , dopo aver creduto di constatare una maggiore incidenza nella città di Catania basandosi su rilevamenti fatti in un brevissimo e poco rappresentativo arco di tempo (2002 – 2004), hanno cercato di suggerire che la cosa sia da associare alla presenza del vulcano.

“I residenti della provincia di Catania con la sua regione vulcanica sembra avere una più alta incidenza di cancro tiroideo papillare che altre aree della Sicilia”: queste le allusive conclusioni del gruppo di stipendiati pubblici che senza prova alcuna mettono sul piatto nuovi allarmismi da aggiungere a quelli sui terremoti o sull'inesistente pericolo della febbre suina ampiamente usati dai media per seminare il panico tra la popolazione.

L'articolo è stato pubblicato dal Giornale del National Cancer Istitute (JNCI) di Oxford con il titolo “Papillary Thyroid Cancer Incidence in the Volcanic Area of Sicily” ed è stato subito ripreso dalla stampa internazionale con titoli che “opportunamente” esaltano la presunta connessione vulcanica: “Thyroid cancer may be more common near volcanoes” (Trad.: “Il cancro tiroideo potrebbe essere più comune vicino ai vulcani”, Reuters, 9 novembre 2009)

Ma sono gli stessi ricercatori ad ammettere che le conclusioni da loro stessi indicate non hanno alcuna evidenza scientifica: «Altre spiegazioni non possono essere escluse» ha detto Vigneri, uno del gruppo, aggiungendo anche che “Altri studi sono necessari per determinare quali siano i contaminanti dell'acqua potabile, se ve ne sono, che potrebbero essere coinvolti del aumento del rischio di candro tiroideo”.

L'unico dato che riescono a produrre a favore della loro spiegazione è che “In molti campioni di acqua potabile provenienti dall'area vulcanica abbiamo trovato che 4 metalli il composto naturale radioattivo radon 222 erano superiori alla massima concentrazione accettabile

Un po' pochino per poter lanciare allarmi di questo tipo e papparsi impunemente lo stipendio pubblico. Anche perché ci sono dei particolari forniti dalla stessa ricerca e che conducono in altre direzioni.

Ad esempio, l'incidenza di cancro alla tiroide appare in aumento. Malgrado il breve lasso di tempo considerato, l'articolo cerca di attribuire la cosa ad una migliore qualità dei controlli, ma l'impalcatura traballa lo stesso: l'Etna non è sbucata dal nulla in questi ultimi anni, e se le cause fossero davvero quelle suggerite, avremmo dovuto osservare invece un'incidenza stabile.

Il collegamento all'acqua potabile rende poi la cosa ancora più grottesca. A partire dagli anni 80 il consumo di acque locali è sicuramente diminuito a favore delle acque minerali imbottigliate provenienti dal nord Italia. Se il problema risiede negli elementi disciolti negli acquiferi vulcanici, pur nella maggiore media rispetto alle aree limitrofe, si sarebbe dovuta rilevare una diminuzione dell'incidenza: l'opposto di quanto osservato dagli “scienziati”.

Lo studio, che ha tra l'altro permesso ad uno dei più importanti periodici di divulgazioni scientifica (Scientific American) di titolare “La maledizione siciliana”, rivela anche una maggiore incidenza in città rispetto alle campagne. E questa è un altra stranezza: se la causa è il vulcano, che differenza c'è tra Catania ed il più minuscolo dei paesini etnei? E che differenza ci sarebbe tra Catania, le isole Eolie, Pantelleria o l'area iblea a cavallo tra Catania e Siracusa dove si trovano numerosissimi vulcani oramai estinti?

Se, come rilevato dal team, l'inquinamento industriale è da escludere, viene da chiedersi perchè non si sia proposto ad esempio il cambiamento delle abitudini alimentari avvenuto negli ultimi 10 – 15 anni, più marcato a Catania dove la Grande Distribuzione Organizzata è molto più diffusa che nel resto della Sicilia.

Ma la statistica in Sicilia non se la prende solo con i vivi. Anche i morti devono essere difesi.

Dopo aver “statisticamente” accertato che i Siciliani discendono dai fenici (si veda il post “Figli di”) , ora ci vogliono dire che i nostri antenati sicelioti adoravano il sole.

Un certo Alun M. Salt, in base alla constatazione che i templi ellenici della Sicilia al contrario di tutti gli altri tendono “statisticamente” ad essere orientati preferenzialmente verso est, ha concluso che questo sia stato un omaggio al sorgere dell'astro.

A dire il vero le premesse dello studio (“The Astronomical Orientation of Ancient Greek Temples”) sono interessanti, poiché sembrano indicare una qualche differenziazione tra sicelioti e greci: “Quindi ne concludo che le differenze tra gli allineamenti tra la Sicilia e la Grecia riflettono pressioni differenti nell'espressione dell'identità etnica

L'autore sembrerebbe affermare che culti precedenti in Sicilia abbiano potuto influenzare tale situazione. Ma come sappiamo, qualunque cenno ad una civiltà siciliana preesistente all'arrivo dei coloni greci deve essere bandita dai libri di storia occidentali. E così nel testo dell'articolo la spiegazione della frase diventa paradossale, tanto che il nostro dimostra una totale ignoranza del soggetto studiato:

L'auto-identificazione dei greci di Sicilia come greci che vivevano all'estero potrebbe aver provocato una aderenza agli ideali greci come imperativo per assicurare sia se stessi che i visitatori dalla madrepatria che il fatto che fossero lontani non li faceva meno greci.

I fatti dicono che invece i sicelioti (o greci di Sicilia) tendevano ad evidenziare il più possibile le loro differenze culturali con i greci veri. Basta ricordare la famosa frase pronunciata da Ermocrate, stretega siracusano, durante la guerra del Peloponneso nel 424 a.c. : “Ne ioni, ne dori, ma siciliani”. Quel voler “assicurare” se stessi ed i visitatori della loro grecità, sa tanto dei moderni colonizzati siciliani che sventolano le loro vuote bandiere tricolori negli stadi. Un'immagine che poco si addice ai Siciliani di allora che sconfissero Atene.

Questa dunque sarebbe la causa dell'allineamento solare: “Se vivi in Grecia, non hai bisogno di provare la tua identità greca e la tua religione” ha detto il dottor Salt, “Se vivi all'estero, potresti sentirti meno sicuro della tua identità greca e potresti sentire il bisogno di fare le cose seguendo ancora di più le tradizioni.” (“Ancient Greek worshippers showed inclination towards the Sun”, TimesonLine, 19 novembre 2009)

Anche a voler accettare la teoria del siciliano più greco del greco, a mister Salt l'idea che l'orientamento potrebbe essere quello perchè è ad oriente che si trova la madrepatria, più che il sole, non viene in mente.

No. Mr. Salt, in base alla sua legge statistica crede di poter dire quello che gli pare malgrado, come lui stesso ammette, altri propongano teorie molto meno traballanti ma che avrebbero implicazioni esplosive per i nostri libri di storia:

I templi greci in Sicilia sono chiaramente greci nello stile, ma erano usati in maniera greca o per caso i siciliani usavano l'architettura greca per costruire templi per culti locali come fecero i romani?

Questa è la domanda che altri studiosi si pongono (vedi pubblicazioni 13 e 14 nei riferimenti bibliografici della pubblicazione, disponibile anche in pdf). O in altre parole, forse esisteva già una civiltà in Sicilia che subì l'influsso ellenico ma che lo plasmò per adattarlo alle proprie credenza: i templi “greci” di Sicilia, furono costruiti dai greci o dai.... Siciliani? Il pensiero corre ai templi di Selinunte e di Segesta, piazzati in un territorio storicamente molto poco Greco.

I ricercatori delle università di Catania, Palermo e Messina ci potranno poi dire se anche quei siciliani che costruivano i finti templi greci soffrivano di cancro alla tiroide oppure no.

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lunedì, novembre 23, 2009

Il fantasma dello stadio (Seconda parte)

Capitolo 2 – L'antefatto

Per inquadrare il 2 febbraio 2007 bisogna prima capire cosa è stato e cosa ha significato per la Sicilia l'eccidio di Portella della Ginestra del 1 maggio del '47. E per capire Portella si deve dare uno sguardo più ampio ad alcuni elementi di quel sistema di condizionamento politico generalmente noto come “strategia della tensione”.

Tale strategia si basa su meccanismi noti in ambito militare e poliziesco da secoli [*] e non è assolutamente da considerare una peculiarità italiana. Quello che rende particolare il nostro paese è semmai l'intensità e la frequenza con cui essa è stata utilizzata nel secondo dopoguerra.

Il perno intorno al quale ruota è quello del trauma che la violenza e l'apparente imprevedibilità dell'evento genera nello spettatore impotente. Un trauma che serve a sviare l'attenzione catturandola in un coacervo di empatia (per le vittime) e di terrore che potranno ora essere incanalate verso un punto prestabilito togliendo “energia” al sistema, facilitando l'accettazione generale dei cambiamenti politici pianificati ed impedendo che la naturale resistenza a quei cambiamenti possa essere canalizzata dagli avversari.

Per scatenare il trauma è necessaria, oltre alla “deflagrazione”, anche la presenza di un ulteriore elemento catalizzatore. In alcuni casi questo elemento è la morte dell'eroe (vedi ad esempio l'omicidio di Moro o la morte di Falcone e di Borsellino), in altri è l'esecuzione (perché di esecuzioni si tratta) di vittime assolutamente ignare, come nel caso della stazione di Bologna o di Portella. In ambedue i casi il trauma verrà subito dal “popolo” sia direttamente tramite il sacrificio degli innocenti, sia indirettamente tramite la morte di un personaggio in cui lo stesso popolo credeva di identificarsi.

Il trauma, a seconda degli obiettivi prefissati, potrà generare terrore (per la semplice constatazione di poter essere noi stessi vittime di una efferata violenza che appare ai nostri occhi irrazionale e disorganizzata, cioè imprevedibile) oppure sensi di colpa per non essere riusciti ad impedire o scongiurare la tragedia. O ambedue. In ogni caso esso rimarrà impresso nella psiche collettiva di una comunità per generazioni secondo meccanismi ben noti e che sono stati ampiamente studiati nell'ambito delle ricerche demopsicologiche [**] di Giuseppe Pitrè e di Salvatore Salomone Marino, insigni letterati siciliani attivi a cavallo tra il XIX ed il XX secolo.

Il Salomone Marino ebbe a scrivere che “Il popolo è storico memore e veritiero (...) Costretto da peculiari condizioni e violenze, può fino ad un certo punto attenuare il proprio sentimento e giudizio, far velo in certo qual modo alla verità[***]

Vi è quindi una “piaga” che viene tenuta coperta per evitare infezioni, ma dietro la quale la verità è sempre in agguato. Il “potere” dovrà preoccuparsi anche di tormentare le carni della vittima richiamando in vita lo spettro del trauma passato ed istigando nuovamente quei sensi di terrore o di colpa ad intervalli regolari per evitare che la ferita si cicatrizzi ed il velo possa essere rimosso.

Quanto duraturo ed efficiente possa essere tale sistema lo si può comprendere esaminando il caso di Bronte, una cittadina posta sul versante nord-occidentale dell'Etna.

Bronte possiede una peculiarità sociale che la differenzia in modo marcato dai paesi vicini: l'elevato consumo di alcool. Tale caratteristica non ha mancato di attirare l'attenzione di psicologi e sociologi. Una delle teorie portate avanti è proprio quella della presenza di un senso di colpa a livello collettivo collegato ai disordini scoppiati ai tempi dell'avventura garibaldina. Fu Nino Bixio ad occuparsi della repressione trucidando alcuni “responsabili”. Responsabili tra i quali si venne a trovare anche un minorato tirato a forza da un orfanotrofio vicino [****].

Questo avrebbe generato dei rimorsi nei compaesani che si convinsero della loro codardia per non aver offerto se stessi al suo posto. Tale senso di colpa nel tempo si sarebbe tramutato in un maggiore consumo di bevande alcoliche.

Ancora oggi la storiografia ufficiale si rifiuta di ammettere la scelta di Bixio come strategica, come un'azione mirata da parte di chi capiva benissimo quali sarebbero state le conseguenze del gesto.

A Bronte nel frattempo si continuano a tenere conferenze ed incontri sul tema: creato il trauma, dicevamo, esso va rinverdito di anno in anno tramite anniversari, celebrazioni, pubblicazioni di parte, di modo che i suoi effetti continuino a propagarsi di generazione in generazione.

Passando ora allo specifico di Portella, si deve chiarire quali erano gli obiettivi che tale azione si prefiggeva. Da cosa doveva essere sviata l'attenzione del popolo, ora moralmente provato e distratto dal dolore per le morti innocenti (dolore abilmente amplificato da quegli stessi che il crimine avevano perpetrato)?

La risposta si trova nella figura di quello che verrà indicato come il colpevole della strage: il bandito Salvatore Giuliano. Più precisamente nel legame che questi aveva avuto con l'indipendentismo siciliano come colonnello dell'EVIS, l'esercito dei volontari per l'indipendenza della Sicilia fondato a Catania dal professore Canepa.

La sua presenza sul posto al momento della strage (presenza ammessa dallo stesso protagonista), indipendentemente dalle sue responsabilità oggettive, è servita tra le altre cose a gettare una lunga ombra su quella stagione inoculando nell'immaginario popolare in un'unica soluzione MIS, mafia e fascismo grazie al trauma della strage. L'eccidio di Portella chiude la parentesi indipendentista siciliana della metà del secolo scorso sviando l'attenzione generale della gente dai suoi veri problemi ed inaugurando, complice consapevole il PCI di Togliatti, la stagione del “vittimismo di sinistra”.

L'orrore per i fatti di quella giornata provocò un temporaneo corto circuito al cessare del quale le menti non erano più focalizzate verso i problemi di un popolo (rappresentati sino a quel momento dal MIS, il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, e dai suoi 460.000 tesserati) ma verso una improbabile lotta di classe che non porterà mai a niente.

Certo si potrebbe argomentare che, al momento della strage, il MIS non aveva più alcuna speranza di sopravvivenza politica. Ma questo poco importa. Il punto è che esso aveva dato una coscienza ed una forma alle rivendicazioni di un popolo poco gradite a quei poteri il cui pugno si richiuse sulla Sicilia in quel primo di maggio. Il trauma di Portella servì a dirottare quella coscienza in direzione di quella lotta di classe fratricida che avrebbe poi permesso disastri sociali come Priolo o la SicilFiat.

Portella creò quel “velo” di cui parlava Salomone Marino oltre un secolo fa. Dietro di esso però la verità è ancora intatta. Gli eventi del 2 febbraio a Catania sono stati pianificati secondo lo stesso schema e dovevano servire a ricucire un pericoloso squarcio che andava formandosi in quel velo, a chiudere sul nascere una nuova stagione “sicilianista”.

Per completare la citazione riportata sopra, “[Il popolo] la verità non la tradisce, non la seppellisce, e chetamente, istintivamente, irresistibilmente, le fornisce luce ed aria perché viva e dia sentore di sé, perché un dì o l'altro trovi mezzo per venir fuori libera e più salda mai

Rimane ancora un elemento di fondamentale importanza. E cioè l'opinione pubblica. Per ottenere l'effetto sperato l'evento deve essere credibile, l'uomo della strada dovrà cioè accettare la spiegazione dei fatti data dall'ufficialità. In altre parole, prima di agire si deve preparare il campo.

Fine seconda parte.


Faccia da vittima


Capitoli precedenti:
1 – L'Introduzione

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[*] Se non da millenni: si pensi a come Nerone usò l'incendio di Roma da lui stesso appiccato per scatenare le persecuzioni contro i cristiani giustificandole agli occhi del popolo.

[**] La demopsicologia è la scienza dello studio delle tradizioni popolari.

[***] Tratto da “Il segreto cinquecentesco dei Beati Paoli” di Francesco Paolo Castiglione (Sellerio Editore Palermo). La citazione che fa Castiglione è a sua volta ripresa da “La Baronessa di Carini” di Salvatore Salomone Marino, edizione del 1914. Un grazie a Rrusariu per l'avermi affidato la sua copia del libro, tuttora in mano mia.

[****] Particolarmente vigliacco anche per gli oltremodo scadenti standard italo-massonici è il resoconto che della strage fa l'enciclopedia “libera” wikipedia. Questi poveri mafiosetti da oratorio arrivano ad asserire (in questo caso senza indicare la fonte delle loro falsità) che la rivolta fu “capeggiata da certi briganti” e la repressione fu compiuta da un “battaglione dell'esercito meridionale".
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sabato, novembre 21, 2009

El Lider Massimo

Se si dovesse scegliere tra i governi italiani del dopoguerra quale sia stato quello più “di sinistra” in politica estera, almeno secondo i classici standard della lottizzata politica nostrana, non ci sarebbero dubbi: l'alloro principale dovrebbe andare all'ultimo governo Berlusconi.

L'apertura alla Russia, a Gheddafi ed alla Turchia neo-islamica ed antimassonica, il rifiuto ad aumentare le truppe in Afghanistan, causa dell'attentato alla caserma di Milano, come sibilato da La Russa, sono azioni rivoluzionarie in un paese che un po' per servilismo un po' per oggettiva impotenza non era mai uscito prima dal seminato in modo tanto deciso.

Certo Craxi aveva a suo tempo provato qualcosina, vedi i fatti di Sigonella, ma alla fine poco era cambiato nell'andazzo generale. Per il resto, i pseudo governi di sinistra degli ultimi vent'anni, tra i vari Prodi ed i vari Amato e Ciampi, hanno molto poco da offrire: più che di governi di sinistra si dovrebbe parlare di governi delle banche. O di una sola banca: la BCE.

L'Italia nella sua storia repubblicana ha avuto un solo primo ministro realmente di sinistra: Massimo D'Alema, il quale ha però macchiato la sua apparizione a Montecitorio con il voto che diede il disco verde al bombardamento della Serbia.

Appare quindi strano che proprio D'Alema sia il leader di sinistra più bersagliato dal suo stesso lato politico [*], o meglio da quello che apparentemente è il suo lato politico. Un lato politico che ha sempre ricevuto larghi consensi dai potentati finanziari europei ed anglosassoni, cosa che non sembra disturbare più di tanto gli italioti di sinistra che continuano a voler credere che sia nel loro interesse far cadere Berlusconi. E che a quanto pare non si sono posti interrogativo alcuno nemmeno quando Berlusconi ha recentemente appoggiato con una certa forza la candidatura abbastanza velleitaria del presunto avversario politico alla carica di “ministro degli esteri” europeo.

Candidatura che non è andata giù ai noti ambienti finanziari europei che tramite il Financial Times hanno reso pubblico il loro disappunto per la possibile nomina. In particolare sembra non sia andato giù uno sgambetto che il D'Alema avrebbe fatto ad uno dei politici italiani più coccolati da Londra, Romano Prodi, e per questo ricordano il fattaccio dipingendolo a tinte fosche (“EU is warned over haggling for presidency”, 17 novembre 2009):

“[D'Alema] è familiare con le oscure arti dell'intrigo politico italiano, avendo cospirato per rimpiazzare Romano Prodi, suo collega, come Primo Ministro nel 1998.

Ne ricordano poi il passato comunista considerandolo un punto a suo sfavore, malgrado poi il Financial Times dica mirabilie di tanti altri ex-comunisti al governo in vari stati europei (“No meritocracy in EU trade-offs”, 17 novembre 2009):

L'ex Primo Ministro e ministro degli esteri italiano, segna troppe poche caselle per ottenere il posto. [Vediamo] le caselle non segante: 1) Il suo passato comunista.

E poi aggiungono qualche bestialità del tipo “sarebbe folle per la UE avere un capo della politica estera che non parla correntemente inglese”, quando se non fosse per l'Irlanda non vi sarebbe un singolo europeo ad avere l'inglese come prima lingua.

Il vero problema è un altro. Esso viene appena appena accennato dai giornalisti del quotidiano londinese: “La sua opinione sugli USA”. Per farcelo spiegare chiaramente dobbiamo andare da qualche altra parte. Per esempio in Israele.

Il vero motivo per cui D'Alema non sarebbe stato gradito a Bruxelles lo apprendiamo da Fiamma Nirestein, Vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei Deputati ed agente israeliano infiltrato nel governo Berlusconi. Il titolo del suo pezzo apparso sul sito de Il Giornale a tal proposito spiega tutto: “Quell’amicizia con Hezbollah pesa come un macigno” (1 novembre 2009)

All'interno poi chiosa:

(...) per D’Alema cadeva su Israele tutto l’onere della pace e sui palestinesi brillava la stella dell’innocenza. Per D’Alema Arafat è stato un amico, mai ha condannato le sue responsabilità nell’Intifada del terrore e del rifiuto di Camp David; il fatto che gli hezbollah avessero rappresentanti in parlamento li rese per il suo giudizio esenti dall’accusa di terrorismo, e glieli ha fatti scegliere come compagni nella famosa passeggiata di Beirut dopo la guerra del 2006.

Insomma, D'Alema ha attitudini troppo “orientali” per alcune “Entità” occidentali. Attitudini che il “baffo di ferro”, secondo la 'ngiuria assegnatagli dalla stampa inglese, ha già suggerito di avere mostrandosi sempre molto interessato alla carriera politica del Presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo. Un rapporto, quello tra i due politici meridionali e meridionalisti, attentamente spiato da tutti, tanto che ogni loro mossa viene riportata immediatamente dalle agenzie:

D’Alema-Lombardo, risotto per due (...) il miglior modo per concludere, intorno a mezzanotte, una giornata occupata da un convegno sul Mezzogiorno. (“D’Alema-Lombardo, risotto per due”, IlGiornale.it 11 novembre 2009)

Ma se la proposta di D'Alema alla UE era velleitaria, perchè è stata fatta? E perchè a Londra ed in Israele si sono lamentati tanto? Forse perchè quella candidatura non è stato altro che un rilancio della figura politica dell'ex comunista in vista di qualcos'altro che potrebbe essere stato discusso, tra le altre cose, durante quel “risotto per due”.

Un qualcosa che potrebbe mettere sempre più distanza tra il nord ed il sud del paese. Le pagine del Financial Times [**] ci hanno riservato un'altra sorpresa, che anche il Corriere mette vicino alla bocciatura di D'Alema:

Al contrario di D'Alema il Ft promuove a pieni voti Giulio Tremonti. Il quotidiano economico londinese colloca il ministro dell’Economia al quinto posto della sua consueta graduatoria annuale dei ministri finanziari europei.
(“D’Alema «ferrato negli intrighi» Tremonti promosso a pieni voti”, Corriere.it 17 novembre 2009)

Cosa sta combinando Tremonti? Che sia impegnato in qualcosa di losco? Il ministro delle finanze, leghista di ferro, non ha mai nascosto il suo poco gradimento per quelle politiche “orientali” implementate dal capo.

La frustrazione e la fine oramai prossima dell'era Berlusconi, insieme allo scorno dell'appoggio al politico pugliese (la goccia finale), devono averlo convinto che era tempo di cambiare casacca. Per tutta risposta la sua inutile (anzi, dannosa) Banca del Sud è stata cassata da Schifani: tra i due litiganti polentoni, i terroni godono.

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[*] Anche se a prima vista potrebbe non essere chiaro, il coinvolgimento di D'Alema nel caso BNL è stato favorito da settori interni al PD

[**] FT ranking of EU finance ministers, Financial Times 16 novembre 2009

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giovedì, novembre 19, 2009

Il fantasma dello stadio (Prima parte)

Con quello di oggi si inizia la pubblicazione di una serie di post dedicati alla ricostruzione di un tragico episodio che ha segnato in modo doloroso le nostre coscienze in questi ultimi anni e che più di altri ha definito il succedersi degli eventi che stanno portando lo stato italiano alla dissoluzione. Uno snodo decisivo per lo spostamento dell'asse del potere al centro del Mediterraneo che nella mente degli organizzatori doveva diventare una nuova Portella della Ginestra, ma che invece potrebbe essersi rivelato il loro Vietnam.

Capitolo 1 – L'introduzione

La strage di Ustica, il Mostro di Firenze, gli attentati del 1992. E tanti altri “misteri italiani”. Tutti rimasti permanentemente tra le pagine dei quotidiani, nei talk show, nei libri di sedicenti investigatori sino ai nostri giorni senza che una vera soluzione processuale definitiva sia riuscita a dichiarare chiuso almeno uno di essi. A intervalli regolari spunta sempre una qualche rivelazione clamorosa che dalla fine è solo una bufala buona ad intorbidire nuovamente le acque.

I motivi per cui questo accade sono molteplici ma anche ricorrenti, nel senso che tutti (i motivi) concorrono a far si che le vittime di questi tragici esempi non possano riposare in pace, nella giustizia o nella menzogna. I processi durano anni ed anni seguendo percorsi tortuosi quando non surreali; le sentenze, se vengono raggiunte, contengono incongruenze inconciliabili; le diverse forze politiche coinvolte insistono ad utilizzare le scomode verità nascoste (nascoste al popolo...) per ricattarsi vicendevolmente per decenni. La guerra nascosta dietro la parvente unità nazionale italiana non dà ancora segni di trovare un qualche sbocco.

Invertendo il processo, dovrebbe essere possibile capire quando un fatto di cronaca apparentemente “normale”, per quanto tragico, possa essere incluso tra i “misteri italiani”. Possa cioè essere un tassello di quella guerra che ha coinvolto e coinvolge forze interne ed esterne all'Italia come riflesso locale di uno scontro globale ben più vasto. Uno scontro che nel nostro paese si manifesta con tipiche esplosioni parossistiche poiché è proprio all'interno di esso che è situata una delle maggiori linee di frizione tra i due blocchi.

Questo preambolo è necessario per poter comprendere i retroscena di un evento che avrebbe dovuto essere, nella mente dei progettisti, una nuova Portella della Ginestra capace di risettare la distribuzione del potere in Sicilia (e di seguito nell'Italia intera) all'ingresso della nuova era post-atlantica. Avrebbe, dicevamo. Perchè nello svolgimento dei fatti il “colpo di stato” non pare abbia sortito gli effetti sperati.

Ci riferiamo ai fatti avvenuti il 2 febbraio 2007 allo stadio Massimino di Catania ed all'assassinio dell'ispettore di polizia Filippo Raciti, un assassinio di cui ancora oggi non si sa assolutamente niente. Come del resto è nella tradizione dei migliori “misteri italiani”.

Non si sa come l'ispettore sia morto, malgrado le ripetute autopsie. Non si sa dove e come sia stato ucciso, malgrado tutta l'area esterna ed interna allo stadio fosse attentamente sorvegliata da un complesso sistema di monitoraggio a circuito chiuso che già all'epoca dei fatti facevano dello stadio etneo uno dei più sicuri d'Italia. Non si sa come si svolsero gli eventi, tanto è vero che mai nessuno ha mai tentato una ricostruzione degli stessi, limitandosi solo a riprendere stantii luoghi comuni su Catania o sulla Sicilia tutta.

E come per tutti gli altri “misteri”, anche questo ogni tanto ritorna. E ritorna sempre al momento giusto: pochi giorni prima di un nuovo derby tra Catania e Palermo ed in un delicato momento politico di svolta tra soffi di vento che indicano come ravvicinate una nuova sfilza di elezioni anticipate.

Il 17/11/2009 [*] sul sito del quotidiano catanese La Sicilia viene diramata la notizia di una nuova perizia (l'ennesima) sulla morte di Raciti (Raciti, Ris esclude il “fuoco amico” [**]) . Quest'ultima è stata commissionata dalla Corte d'assise e dal Tribunale per i minorenni di Catania. L'ennesima perchè tutto l'interminabile processo si gioca solo su due perizie che vengono ripresentate da una parte e dall'altra come se fossero ordinate e preparate da mani diverse, ma che in realtà non rappresentano altro che due facce della stessa medaglia. Mentre non si sa sino a che punto le due parti politiche che si fronteggiarono in quel tragico giorno si stiano fronteggiando anche dentro al tribunale.

L'accusa pretende di dimostrare che Raciti fu ucciso da un sottolavello divelto dai bagni dello stadio e lanciato contro il poliziotto da due minorenni, Antonino Speziale e Angelo Daniele Micale, mentre dall'altro lato la difesa sostiene l'inconsistenza delle ricostruzioni della scientifica. Spingendo a tratti l'attenzione sulla tesi del fuoco amico supportata da precise analisi effettuate dal RIS di Parma, senza mai abbracciarla pienamente.

Basta riprendere le conclusioni surreali di questa ultima perizia dell'accusa per capire quanto tutto il procedimento penale non sia altro che una farsa destinata a protrarsi nel tempo senza apparente soluzione:

“Il presunto impatto tra il sottolavello e l'ispettore - scrivono i periti - non è documentato da alcuna immagine o filmato, ma va presa in considerazione l'ipotesi che il corpo della vittima potesse essere ruotato per chiudere la porta con l'innalzamento del lobo destro del fegato e la messa in trazione della capsula" che lo avvolge proteggendolo”

Gli stessi periti ammettono che non vi sia nessuna prova di quanto dicono e che non sia assolutamente possibile fornire prova dell'impatto, si veda anche la strana dinamica necessaria per permettere al fegato di rimanere tanto esposto da ricevere il colpo mortale ipotizzato.

Non solo. Secondo gli esperti “il decesso deve pertanto ricondursi a tale meccanismo violento”. Ma questa incontrovertibile consequenzialità evidenziata dal “deve” fa a pugni con quanto asserito prima, dove l'ipotesi della strana rotazione “va presa in considerazione”, ma non può essere provata come invece richiederebbe l'uso del verbo dovere.

Una perizia dunque inutile che altro scopo non ha se non quello di allungare e rimestare un brodo già torbido di per sé. Una perizia apparsa appena in tempo prima della partita di domenica prossima per lanciare chissà quale messaggio.

Ma c'è di più. Un altro particolare che ci riconduce sempre a quei “misteri italiani” e a tanti altri fatti di cronaca di questi anni apparentemente insignificanti. Ed è il nome dell'avvocato difensore di Antonino Speziale, il minorenne di Librino accusato sin dai primi giorni dell'assassinio di Filippo Raciti: Giuseppe Lipera. Un avvocato onnipresente sugli organi di stampa italiani a causa di altri due clienti di ben più alto profilo rispetto al giovane tifoso del Catania, e cioè l'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada ed Antonino Santapaola. fratello del capomafia catanese Nitto, ambedue condannati in via definitiva ed ambedue impegnati nel tentativo di “evadere” la condanna a causa di più o meno accertati problemi di salute.

Il fatto che Lipera difenda Santapaola e Contrada non dovrebbe permettere a nessuno di dubitare dell'integrità professionale ed umana del legale. La cosa che stona nella vicenda è proprio la difesa nel caso dei fatti del 2 febbraio, difesa protrattasi oramai da più di due anni.

Come può la famiglia di Antonino Speziale permettersi la spesa per un professionista tanto ricercato e per così tanto tempo? Sono veramente loro a pagare il “disturbo” dell'avvocato Lipera?

Ultimo aggiornamento: 22 novembre 2009.


Lipera difende i diritti umani


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[*] Teniamo sempre presenti le date in questa vicenda, in quanto esse costituiscono un elemento importante nella ricostruzione dei fatti che verrà fatta nei post seguenti.

[**] Un titolo estremamente contorto se non volutamente falso, visto che invece è proprio il Ris (quello di Parma) a sostenere la tesi del “fuoco amico” (e le virgolette non le ho messe io...), secondo un esame reso pubblico per la prima volta nel maggio del 2007 (“Raciti la pista è blu”, L'Espresso 31 maggio 2007)
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mercoledì, novembre 18, 2009

L'abito non fa il vescovo

L'Italia è marcia, perversa, corrotta. Ed in questo non è altro che un appendice dell'occidente.

La verità su questa “civiltà” occidentale non è un mistero. Essa ci solletica apertamente mentre continuiamo a guardare ed allo stesso tempo a tenere gli occhi chiusi.

Destino ha voluto che a scardinare questo velo che ci siamo voluti tenere sugli occhi per semplice quieto vivere, a girare il nostro “Eyes wide shut” fosse un siciliano. Che per fare quello che ha fatto, per riuscire ad arrivare a mostrare questo piccolo spicchio del cuore di tenebra, in quella lordura si è in qualche modo immerso.

Fabrizio Corona nel 2007 ha costretto tutti a guardarsi allo specchio. Uno specchio in cui ci siamo visti riflessi nei lineamenti sfatti dalla droga e dalla notte di bagordi trascorsa in compagnia di alcuni transessuali di un rampollo della famiglia simbolo stesso dell'Italia unita [*].

Corona è vivo (avrà chi lo protegge...). Ma noi, come nazione e come società, siamo morti.

Come avrebbero potuto mai scalfirci le notti brave del Capo del Governo a Palazzo Grazioli circondato da bellezze a pagamento, dopo le vicende che hanno visto coinvolto il reporter scandalistico catanese?

Non abbiamo mosso un muscolo neanche dopo aver notato il viso di Marrazzo che tentava di contorcersi in una strana espressione di inesistente auto-mortificazione. Non ci siamo neanche chiesti come mai Berlusconi si sia scomodato di persona (avrebbe fatto lui stesso la prima telefonata) per colpire una tale mezza cartuccia.

Non ci siamo accorti che immediatamente tutti gli attacchi contro Arcore sono calati di intensità. Colpiscine uno per educarne cento. E così i cento hanno capito che, se non si calmavano, cose ben più gravi delle perversioni della mezza cartuccia sarebbero trapelate. Altro che veline e trattative con lo stato (mi riferisco sempre alle trattative sul prezzo delle escort, non a Riina...).

Un punto un po' più oscuro della vicenda rimane però quello del ritiro spirituale all'abbazia di Montecassino, dove il Presidente della Regione Lazio avrebbe un caro amico. Un “giallo” secondo il Corriere. Vero, poi falso.

Come un giallo è anche la ritrovata pacatezza delle esternazioni della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) nei confronti del premier dai facili costumi. Grazie a Corona, oggi non ci si meraviglierebbe più di tanto neanche se il prossimo ad essere preso con le mani nel sacco fosse un porporato.

L'accostamento si fa irriverente, ma questo si merita chi, nascondendosi dietro un abito da monaco, trama contro coloro i quali prestano fede con assoluta sincerità.

Quando a suo tempo collegai le vicende lagunari di Baaria, l'ultimo film di Tornatore, alle critiche mosse dal presidente della CEI, Cardinale Bagnasco, e dalla sua corte al governo italiano per le attività sessuali del suo capo [**], qualcuno ha storto il naso accusandomi di anticlericalismo.

Ora la CEI getta la maschera e viene allo scoperto puntualizzando meglio le sue preoccupazioni e confermando che certe divergenze di vedute con il capo dell'esecutivo permangono.

Questa settimana Famiglia Cristiana riporta alcune anticipazioni di un documento che la Conferenza Episcopale Italiana dovrebbe approvare nei prossimi giorni. Un documento dedicato al mezzogiorno (“Immigrazione, dialogo con l'Islam e lotta alla mafia. Documento della Cei dedicato al Mezzogiorno”, SiciliaInformazioni.com 17 novembre 2009).

In esso si ricordano innanzitutto le parole pronunciate da Giovanni Paolo II ad Agrigento contro la mafia. Il documento punta dunque la Sicilia:

“Non ovunque e non da tutti si gridano le parole risuonate nella Valle dei Templi” (...) “nel Mezzogiorno la Chiesa ha mostrato di recepire in maniera disomogenea la lezione profetica di Giovanni Paolo II”

E' bello vedere come oggi i vescovi italiani facciano autocritica affannandosi ad enfatizzare le importanti profezie di quello che ancora oggi pare sia indicato nel loro ambiente aristocratico con una apposizione dal senso dispregiativo: “il polacco”. Potevano ricordarsele prima le parole del “polacco” invece di aspettare non 3 lustri, ma ben 150 anni.

Questa ammissione di colpevolezza diventa mostruosa quando si pensa come ci sia voluto un Papa straniero per denunciare la grave inadempienza dei vertici della chiesa italiana che fino ad oggi non ha mosso un muscolo in questa direzione.

Quanto credito si può dare a questo “mea culpa”? Meno di zero. Dove vogliono arrivare gli aristocratici prelati lo si capisce dalla critica rivolta al federalismo:

Alla politica e alla maggioranza di Governo i vescovi chiedono di vigilare sul riassetto federale del Paese: ''Sarebbe una sconfitta per tutti se il federalismo allontanasse le diverse parti d'Italia''. Occorre, invece, un gioco di  squadra (...).

Eccolo qui il nocciolo del problema. I vescovi italiani sono preoccupati che qualche parte d'Italia si allontani. E notate con quanta delicatezza chiedono al governo di vigilare. Che contrasto con tutta la sguaiata vicenda Boffo!

Oggi loro sono per “il gioco di squadra”. Un gioco di squadra non fatto insieme alla Sicilia (o al sud in generale), ma contro di esso. Una chiamata, un appello a tutte le forze romano-centriche affinchè di uniscano contro la Sicilia, la parte d'Italia che al momento rischia di allontanarsi (il bluff di Bossi non se lo beve più nessuno).

Il punto cardine di questa strategia può essere sicuramente individuato in quel “dialogo con l'Islam” caldeggiato nel documento. Il suo collegamento alla questione meridionale non lascia spazio a fraintendimenti: il dialogo sottinteso non è sociale ma politico.

Nel sud Italia e soprattutto in Sicilia l'immigrazione maghrebina non ha causato alcuna tensione sociale. Il problema semmai riguarda il nord Italia, dove la quantità di immigrati rappresenta un serio problema che rischia di infiammarsi nella presenti tensioni economiche.

Voler quindi sperimentare il dialogo al sud “specialmente con l'islam” stona con il preteso tema pastorale ed umanitario del documento.

Quello che invece potrebbe prefigurarsi è un tentativo programmatico di accordo con i paesi della sponda sud del Mediterraneo che lasci il Regno di Sicilia in mano al nord in cambio di qualche concessione. Una strategia, quella della protezione pseudo-mafiosa sui territori coloniali meridionali, che sembra essere connaturata ai disperati e marci apparati di potere italioti.

A ben vedere, il tentativo di Bagnasco non fa altro che ricalcare la strada seguita da Berlusconi per salvare il salvabile ponendosi come intermediario tra la Russia neo-zarista e la Sicilia.

Per dare forza al loro messaggio i vescovi mi citano i “martiri per la giustizia”, don Pino Puglisi, don Peppino Diana, il giudice Rosario Livatino.

Chissà dov'era il loro “gioco di squadra” quando quei martiri venivano massacrati.

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[*] Che italietta meschina: la voce di wikipedia (la libera enciclopedia) riguardante Fabrizio Corona “casualmente” evita di citare la vicenda di Lapo Elkann.

[**] Si vedano i post “Peppuccio il mangiapreti”, “La tempesta” e “Legume in mare


Eyes Wide Shut

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domenica, novembre 15, 2009

Corso di fotografia

La mitica figura di Osama Bin Laden non è più nitida come una volta. Gli ultimi avvistamenti sono testimoniati da foto in cui il profilo del leader di Al-Qaeda sembra scomparire in dissolvenza.

Ne ha parlato in questi termini anche il Corriere della Sera (“Bin Laden è vivo? Il giallo in un video”, Corriere.it 28 ottobre 2009), riferendo chiaramente di “dubbi” sull'autenticità dei vari video di Bin Laden recuperati da varie «società» USA (le significative virgolette sono del Corriere).

Queste ultime foto sarebbero state scattate durante una festività islamica. Logico chiedersi allora, come fa il quotidiano, se Bin Laden è tanto tranquillo da spassarsela in pubblico come mai altri suoi video propagandistici non vengano distribuiti. Le conclusioni sul perchè ciò non avvenga sono quantomeno interessanti :

“Un’assenza che viene letta da taluni come la conferma che è davvero morto. Con una variante: è vivo, ma è diventato irrilevante”.

E le due cose (morte o irrilevanza) sono davvero la stessa cosa. A Bin Laden non ci crede più nessuno e diventa inutile continuare a gridare al lupo: come nella storiella alla fine non ci si allarma più.

Ecco quindi che con una incredibile svolta, possibile solo tra gli zombie dalla tabula rasa che oramai riempiono le città occidentali ed ai quali è possibile rigirarla come si vuole, il Financial Times (tra gli altri) butta in prima pagina ("US to seek death penalty for 9/11 suspect", 13 novembre) il (nuovo) responsabile degli attacchi del 9/11 alle torri gemelle, Khaled Sheik Mohammad, con una bella foto (riportata in alto) che seppure fatta nei vicoli di Kandahar, dove non sono neanche capaci di mettere a fuoco Osama Bin Laden, sembra uscita pulita pulita da un concorso fotografico della National Geographic, tanto sono nitidi i peli della sua barba da estremista e tanto le ombre riescono a chiarire il pensiero omicida del fanatico.

Su Osama neanche un accenno. Svanito, anzi “soffuso” (per tornare alla foto del Corriere, riportata in fondo al post) lentamente nel “background”. Un giochetto di prestigio per far riapparire dai quei contorni fumosi i nuovi tratti somatici del nuovo responsabile dell'11 settembre.

Ma il Financial Times non si occupa solo di terrorismo internazionale. Da esso possiamo apprendere tanto anche sulla nostra terra. Anche in termini “programmatici” o “anticipatori”, se si sa leggere tra le righe.

Così anche questa settimana a pagina 4 si torna al centro del Mediterraneo. Anche se questa volta la Sicilia non è neanche menzionata, malgrado l'argomento forte del pezzo: la mafia.

Si, si avete capito bene: il Financial Times ieri, 14 novembre, ha dedicato un lungo articolo sulla storia della mafia italiana negli ultimi 20 anni (“Mafia rushed through gap in Berlin Wall”), richiamandolo pure in prima pagina, ma di Sicilia neanche l'ombra. Solo Calabria.

Secondo il giornalista, Guy Dinmore, la cadura del muro di Berlino ha proiettato la 'Ndrangheta “verso una portata globale ed uno status non raggiunto da altre organizzazioni criminali”. Ma non era Cosa Nostra ad avere questo “status”?

Importante, alla fine dell'impero sovietico “e possibilmente ancora oggi, era il traffico di materiale nucleare, prevalentemente dal blocco ex-sovietico”. Ma non erano i criminali siciliani quelli che cercavano di spacciare una bomba in giro per il mondo? Ne ha parlato anche Il Consiglio a suo tempo (si veda il post “Da dove viene la mafia, seconda parte”)

Poi si comincia a spararla veramente grossa: “Il contrabbando [di materie tossiche, ndr] ha portato Mister Fonti [un pentito, ndr] in giro per il mondo, inclusa la Somalia”, in modo da preparare il campo per accusare la 'Ndrangheta della morte di Ilaria Alpi. Si parla di un clan calabrese “al quale sono stati offerti 50 aerei cargo Ilyushin da un colonnello del KGB”, passando a criminalizzare tutti i calabresi che si azzardano ad uscire dal loro campo di concentramento malgrado si sia provveduto a distruggere la Salerno-Reggio Calabria:

Dopo, queste genti di montagna hanno mandato i loro figli nelle università. Ora sono professionisti – avvocati, consulenti, esperti di informatica, ingegneri. Hanno lasciato la Calabria e sono andati in giro per il mondo, organizzando investimenti con i soldi di famiglia. Un buona parte di questi soldi vedono la luce del giorno come imprese legittime”.

Nazismo puro. Come quello sino a oggi dedicato anche ai siciliani.

Alcune delle stronzate citate provengono ad un ridicolo articolo del Sole 24 Ore che se non altro causò la nascita di questo blog: “La 'ndrangheta come al-Qaida”, del 23 novembre 2005, fu lo spunto per il primo post in assoluto. Bisogna leggere cosa possono partorire certe menti raffinatissime:

La commissione parlamentare anti-mafia italiana ha paragonato la struttura in celle della ‘Ndrangheta, con la sua struttura basata sulla famiglia al modello organizzativo di al-Qaeda, e la sua reputazione nel mondo a quella di una multinazionale.

La mafia siciliana è scomparsa. Ed il cervello dell'occidentale medio, programmato per funzionare a comando, non potrà che rimuoverla dai suoi ricordi.

Rimossa anche geograficamente. La Calabria è “l'estremo sud dell'Italia” e “la regione più povera d'Italia”. Oltre non sembra esserci più niente. L'occidentale deve imparare che ora l'Italia e la mafia finiscono a Reggio Calabria. Ed il nuovo ordine ha effetto retroattivo: sarà sempre stato così.

Questa potrebbe essere un'interpretazione. Il voler segnalare una prossima scissione dell'isola dal suo passato più recente. Fatta l'isola indipendente, nessuno vorrebbe rimanerne completamente fuori vista l'importanza strategica che assumerà nello sviluppo economico della sponda sud del Mediterraneo. Per cui meglio riabilitarne l'immagine.

Ma un altro messaggio potrebbe essere contenuto tra le righe. Un messaggio relativo alla (vera) storia della mafia.

Il recente ed improvviso “ritorno della memoria” a riguardo della trattativa tra lo stato e la mafia doc siciliana, l'unica che nella realtà abbia mai avuto una qualche consistenza ed a tratti una propria libertà d'azione (si veda il post "Trattative riservata"), che nel Belpaese ha colpito impietosamente più persone dell'influenza suina, sembra essersi arrestato. I vari esponenti dell'Italia dei Valori, dai Di Pietro ai De Magistris, si sono zittiti.

Il baccano è a poco a poco scemato in seconda serata nei palinsesti porno-televisivi italiani dopo aver raggiunto un apice particolare quando Piero Grasso ed altri hanno cominciato a parlare di “Entità esterne” (si veda il post “Lo scheletro dell'occidente”).

Queste “Entità esterne” attraverso le pagine del Financial Times potrebbero voler segnalare che il messaggio sia arrivato a destinazione e che certe armi possono essere deposte. Nella situazione economica in cui si trova la City le minacce di Grasso di aprire le ante di chissà quale armadio sono materiale radioattivo molto più pericoloso dei fantasiosi traffici calabresi.


Lezione numero 1: la messa a fuoco


Altri post relativi al Financial Times:
La casa del figlio cambiato
Cime tempestose
L'Ingresso dell'India
Lo scoop dell'anno
La stampa inglese avverte l'Europa
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sabato, novembre 14, 2009

Un asino senza ali

Il trittico terrorista anti-siciliano composto dalle centrali nucleari, dagli inceneritori inseriti nel piano rifiuti licenziato dal governo Cuffaro e dal mitico ponte sullo stretto (si veda il post “Complotto terrorista”) ha subito un duro colpo di recente quando, andata deserta l'ennesima asta per la costruzioni delle mega strutture di diffusione oncologica, la Regione ha di fatto cancellato quel piano criminoso (si veda il post “De cinere surgo”).

Se al Presidente Lombardo va dato atto della battaglia vinta (anche se la vicenda è ancora lontana dalla sua conclusione), dall'altro la sua posizione nei confronti della irrealizzabile campata rimane deprecabile.

Il piano dei proponenti non è la sua realizzazione: essi oramai sanno benissimo che per quello non vi sono né le capacità tecnologiche, né i capitali. Bensì l'apertura dei cantieri. Esattamente la stessa tattica usata per un'altra opera inutile ed irrealizzabile, e cioè il raddoppio della Salerno Reggio Calabria.

Grazie ai decennali lavori effettuati sulla martoriata arteria stradale, l'economia di decine di imprese del nord Italia e di molte altre locali legate ai loro padroni padani da fili indicibili (leggi malavita organizzata) si è potuta trascinare sino ad oggi. I cantieri sullo stretto serviranno allo stesso scopo.

Basta leggere l'ultimo aggiornamento riguardante lo stato della progettazione e dei finanziamenti per rendersene conto (“Ponte sullo Stretto, entro fine anno ricapitalizzazione da 900 mln”, EconomiaSicilia.com 13 novembre 2009).

Mentre Ciucci parla di avvio dei lavori nelle prossime settimane, il capitale a disposizione rimane di 1.600 milioni (su 6.300 necessari...), di cui 300 milioni provenienti dall'ultima ricapitalizzazione della Ponte sullo Stretto, mentre il 60% dei fondi dovrebbe provenire da privati (ripeto: dovrebbe...).

Mancano ancora circa 900 milioni che dovrebbero arrivare tramite una ulteriore ricapitalizzazione entro la fine dell'anno.

Nel frattempo, non essendo ancora pronto il progetto definitivo, non si sa di quanto queste previsioni di spesa vadano riviste all'insù, quanto verranno a costare le opere accessorie (non contabilizzate nella somma totale) e quanto i privati siano realmente disposti a rischiare visto le poco invidiabili previsioni di rientro economico (si veda il post “Una pietra non fa primavera”).

In questo quadro la posizione di Lombardo è francamente surreale, anche in considerazione del fatto che molti altri politici siciliani del centrodestra si sono apertamente dichiarati contrari all'opera (ad esempio il finiano Granata) o implicitamente critici, come l'attuale ministro per l'ambiente Stefania Prestigiacomo (vedi il post “Vota Stefania”) o lo stesso Gianfranco Miccichè (vedi il post “A ruota libera”)

E' importante capire quanto la posizione favorevole di Palazzo d'Orleans sia dovuta a reale convinzione personale e quanto a motivazioni legate al calcolo politico o a posizioni di forza ancora ben radicate che gli impediscono di cambiare registro.

Il problema delle convinzioni personali rimane estremamente difficile da affrontare, ma alcuni indizi suggeriscono che quella convinzione personale non debba essere data per scontata e che i giochi politici la facciano da padrone.

La debolezza dei pontisti diventa sempre più evidente oggi malgrado i proclami contrari. Cosa strana se veramente il leader dell'MPA stesse buttando tutto il suo peso dietro alla mega-follia.

Invece Ciucci spesso deve ricorrere alle maniere forti per andare avanti in Sicilia.

Lo ha dovuto fare pochi giorni fa quando durante il vertice per i lavori preliminari dell'opera ha mandato un ultimatum alla CAS (il consorzio autostrade siciliane) minacciando al revoca della concessione. La CAS è francamente una vergogna anche per i già bassi standard delle regione. Ma la dichiarazione fatta contestualmente a questo vertice lascia prendere al tutto il grigio colore del ricatto.

Ciucci è infatti anche presidente dell'ANAS, il gestore della rete stradale ed autostradale italiana, e grazie al suo pervasivo controllo sulle infrastrutture siciliane, può fare male per davvero.

Ora la sua posizione di privilegio in quest'ambito è stata rafforzata grazie ad una gravissima decisione presa dal Ministro Matteoli: Ciucci è stato anche dichiarato commissario straordinario per le opere accessorie connesse alla megastruttura.

Rimane solo da definire quando un'opera possa dirsi accessoria o meno al ponte. Dal binario di Cannitello sulla sponda calabra, all'interramento della stazione di Messina, al raddoppio ed allo spostamento della linea per Catania (tutte opere che in realtà non hanno niente a che vedere con il ponte), il potere di ricatto diventa immenso.

Il ministro, fuori da ogni possibile regola democratica, ha nei fatti commissariato mezza Sicilia e mezza Calabria dando la precedenza su tutto agli sbancamenti per il ponte scavalcando anche lo Statuto dell'Autonomia (oltre ai morti di Messina...), al solito.

Tutti accelerano con l'avvicinarsi delle elezioni in Sicilia ed a Roma. Oltre al pecoraio anche il presidente della “ponte sullo stretto” potrebbe avere le ore contate. A quel punto è bene che Lombardo o chiunque sia il prossimo Presidente cambi immediatamente direzione, perché ogni pazienza ha un limite e ciucci che facciano i bravacci a casa nostra non ne vogliamo più vedere.

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domenica, novembre 08, 2009

Colpo di coda

Non bisogna mai aver timore dell'avversario. Ma nemmeno sottovalutarlo.

Ci si aspettava qualche bella sorpresa da Termini Imerese dopo gli improvvisi accordi tra Marchionne e Putin del 7 ottobre ed il susseguente viaggio di Berlusconi a Mosca, ed invece la FIAT insiste: niente autovetture assemblate in Sicilia e riconversione della fabbrica alla componentistica per trattori della Cnh.

Una decisione che sa di sberleffo, visto che proprio intorno alla Cnh si è giocato l'accordo tra il Lingotto ed uno degli occupanti del Cremlino (“Marchionne vola da Putin Accordo sui veicoli industriali” Corriere della Sera 8 ottobre 2009) [*].

Sarebbe la prima volta che il Presidente del Consiglio riesce a spingere un disegno anti-siciliano tra i corridoi del potere moscovita. E purtroppo questa non è l'unica notizia poco felice.

Il campionato di calcio è uno dei nodi principali del potere politico ed economico in Italia. Ogni spostamento anche minimo viene riflesso nell'andamento delle squadre coinvolte nei campionati professionistici.

L'anno passato siamo stati testimoni del riassestamento verso sud del potere calcistico quando l'alleanza tra Catania e Palermo (insieme ad altre società quali Lazio, Napoli, Sampdoria, Genoa, Udinese, Bologna, Milan e forse Juventus) riuscì a togliere terreno sotto l'allora presidente di lega Matarrese (si veda il post “Una cosa che andava fatta”). Non appena questi cadde, immediatamente il fratello pensò bene di vendere il Bari, giusto giusto risalito nella prima serie grazie agli auspici del gruppo in quel momento ai vertici.

Eppure... eppure oggi, dopo 12 giornate di campionato, qualche cosa non quadra. Come mai il Catania viaggia sommesso nelle ultime posizioni in classifica malgrado il suo potere in Lega sia aumentato a dismisura con il suo amministratore delegato (Pietro Lo Monaco) eletto consigliere insieme ai rappresentanti delle squadre elencate sopra?

Si potrebbe imputare tutto alla sfortuna o a scelte tecniche discutibili. Ma c'è da rilevare anche l'assoluto immobilismo della società che non prende provvedimento alcuno. Sostituendo l'allenatore ad esempio. Solo una triste rassegnazione.

Le solite coincidenze suggeriscono che potrebbe esserci dell'altro.

Lo scorso 3 novembre Antonino Pulvirenti, presidente del Catania Calcio, è stato accusato di evasione fiscale proprio in merito all'acquisto della società sportiva da Gaucci (“Pulvirenti accusato di evasione fiscale ”, LaSiciliaWeb 3 novembre 2009). Le motivazioni sono farraginose (il pacchetto di proprietà sarebbe passato attraverso una società intermedia per realizzare minusvalenze) e, dato lo stato del sistema giudiziario italiano e l'ambiguità delle leggi, sembrano indicare che la decisione del giudice, strategicamente piazzata a fine campionato (11 luglio), potrebbe essere squisitamente politica.

Ieri invece è toccato all'altra importante azienda dell'imprenditore etneo, la compagnia aerea Windjet. Un suo aereo in volo per Mosca è stato costretto ad un atterraggio in Bielorussia a causa di una crepa apparsa in uno dei finestrini della cabina di pilotaggio. La notizia è stata subito ripresa dai media nazionali (“Atterraggio forzato a Minsk di un volo Wind Jet dall'Italia”, Corriere.it, 7 novembre 2009).

Bisogna fare molta attenzione a gridare al lupo, ma è sempre quell'accavallarsi di coincidenze che salta all'occhio. Se però si accetta la tesi intimidatoria volta al ricatto politico (successo economico + successo sportivo = voti), una cosa è certa: non può essere casuale la scelta del volo, diretto in Russia.

Questo mirino puntato ad est ci ricollega ai fatti di Termini riportati sopra. Rendendo più pressante l'interrogativo sul cosa sia cambiato a Mosca.

Le voci circa un “raffreddamento” dei rapporti tra l'attuale Presidente della Federazione Russa, Dimitri Medvedev, ed il suo predecessore si susseguono dalla scorsa primavera, quando all'improvviso il primo rilasciò una intervista ad un giornale notoriamente critico dell'operato di Putin, il "Novaya Gazeta", nella quale si strizzava parecchio l'occhio ai liberali (leggi occidente). Intervista che la sua portavoce, Natalya Timakova, allora dichiarò “un’autonoma decisione del presidente” (cioè contraria al parere di Putin) aggiungendo che “Rilasciando questa intervista, il presidente vuole esprimere il suo supporto morale al giornale” (“Medvedev si smarca da Putin aprendo alla stampa e parlando di libertà”, L'Occidentale 16 aprile 2009).

Nei mesi seguenti abbiamo effettivamente visto sempre più in giro tra le pagine dei giornali Medvedev e sempre meno Putin. E dietro il fumo pare si celi anche l'arrosto. E' stato lo stesso Medvedev a trattare con Washington la fine del progettato scudo anti-iraniano (ed anti-russo) nell'Europa dell'Est (si veda il post “Tutte le scarpe del Presidente”), apparentemente assicurando in cambio un certo appoggio nel confronto con l'Iran.

Una frattura dove si potrebbe essere insinuato velocemente il nostro caro Silvio piazzando un tremendo colpo di coda. Si provi ad immaginare: che altro poteva fare, il caro Silvio, se non spiegare all'amico Vladimir che se non avesse ottenuto ascolto da lui non avrebbe avuto altra scelta che andare a bussare a Dimitri?

Rimane da capire quanto il Presidente russo voglia strizzare l'occhio ai liberali (leggi sempre “occidente”). Le ultime dichiarazioni trapelate dopo l'apparente rifiuto iraniano all'arricchimento in Francia dell'uranio necessario ai suoi reattori risultano abbastanza ambigue da risultare rassicuranti per la Sicilia:

"Non vorrei che tutto ciò si concludesse con l'adozione di sanzioni internazionali, poichè le sanzioni, come è noto, sono una strada in una direzione molto complessa e pericolosa. Ma se non ci saranno passi avanti, nessuno può escludere un tale scenario"

Parole che sanno di temporeggiamento lasciando aperta la speranza che tutto torni al suo posto e che la frattura russa sia solo dovuta ad una questione interna e non a divergenze ideologiche più profonde che dilanierebbero l'intero fronte orientale.

Perchè una cosa deve essere chiara a tutti: l'unico destino possibile per la Sicilia è ad oriente. Qualunque altra direzione risulterebbe fatale al nostro Popolo. Ogni volta in cui la Russia vacilla i contraccolpi arrivano amplificati al centro del Mediterraneo, ma se la Terza Roma riuscirà a ricomporsi anche noi alla fine ne usciremo rafforzati.


Berlusconi e Putin indossano il salvagente per cercare di rimanere ancora a galla


Aggiornato il 9 ottobre 2009
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[*] Per ricapitolare, ricordiamo che la sorte di Termini Imerese sembrava legata alle trattative di Berlino che vedevano la FIAT contrapposta ad una cordata russo-canadese per l'acquisto di OPEL. La FIAT ne uscì sconfitta e finalmente scoprì le carte ammettendo che quella sconfitta avrebbe significato al fine della fabbrica siciliana (da notare come questo fosse il contrario di quanto fatto trapelare in precedenza, e cioè la notizia secondo cui se FIAT avesse acquistato Opel, Termini avrebbe chiuso). Ma ora il gioco di Berlusconi si fa più chiaro: il suo mancato supporto in quel frangente alla casa automobilistica torinese ha forzato Marchionne a pagare dazio ad Arcore, ed ora il pecoraio può minacciare i ribelli siciliani.
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venerdì, novembre 06, 2009

Una pietra non fa primavera

Quelli del mitico ponte sullo stretto non rispettano mai i tempi. Assicurano questo, assicurano quello. Ma poi vengono puntualmente smentiti dai fatti.

E' dal 2008 che, tutti in coro, da Ciucci al ministro Matteoli, ci assicurano (qualcuno direbbe “ci minacciano”...) che la posa della prima pietra sarebbe avvenuta nella prima metà del 2010:

La prima pietra a metà del 2010, ha assicurato il ministro nel maggio 2008

L'apertura dei cantieri è prevista per maggio-giugno 2010, ha chiosato Ciucci nel luglio dello stesso anno.

Ed invece lo scorso 15 ottobre ci siamo svegliati con un netto cambiamento di programma. Una smentita, quella del ministro, completamente diversa dalle precedenti:

"I lavori del ponte sullo Stretto di Messina inizieranno il 23 dicembre di quest'anno e termineranno nel 2016"

Capovolgimento di fronte, questa volta siamo di fronte ad una improvvisa accelerazione! Certo, i siti dei maggiori quotidiani siciliani la notizia l'hanno data a metà, in modo da disinformare attentamente i lettori: si sono casualmente scordati di citare dove sarebbe stata posata questa prima pietra, cioè alla stazione di Cannitello, sul versante calabro.

Qualche dubbio allora sorge. Una associazione di professionisti dell'area dello stretto fa una osservazione interessante (“Il Ponte e la prima pietra: grande opera o grande bluff?”, TempoStretto.it 20 ottobre 2009):

«Per il Ponte sullo Stretto di Messina non esiste allo stato neppure il progetto, se non nella sua versione preliminare. Non può dunque aprirsi nessun “cantiere del ponte”. Ciò che potrà iniziare tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo sono i lavori per la cosiddetta “variante Cannitello”: un’opera di interramento del tracciato ferroviario calabrese in prossimità di Villa S. Giovanni il cui progetto è stato approvato dal Cipe nel marzo del 2006 (Governo Berlusconi), dissociandolo esplicitamente (per indirizzo dello stesso Ministero delle Infrastrutture) dal progetto del Ponte. La “variante Cannitello” costituisce esclusivamente la prima fase di un più ampio progetto di miglioramento ambientale per la costa calabrese, rientrando nel disegno di interramento del tracciato ferroviario definito “Variante finale alla linea storica in località Cannitello”»

La sensazione che si voglia a tutti i costi fare credere che i lavori siano iniziati si rafforza grazia alla excusatio non petita di un Ciucci in difficoltà che risponde proprio alle righe riportate sopra (“Ponte sullo Stretto. Le precisazioni di Ciucci”, TempoStretto.it 21 ottobre 2009):

«Si tratta davvero della posa della prima pietra del Ponte sullo Stretto (...) Tutte le opere infrastrutturali, da che mondo è mondo, iniziano eliminando le interferenze.»

Forse. Ma le dichiarazioni di qualche politico fanno aumentare le perplessità. E non si tratta di una figura di secondo piano. Raffaele Lombardo sentendo l'annuncio ha aggiunto ("Il ponte? Pronto nel 2016" E Lombardo alza la posta, LaSiciliaWeb.it 15 ottobre 2009):

"Ho incontrato questa mattina il presidente dell'Anas. Se mi propone di partecipare a un eventuale aumento di capitale della società del ponte sullo Stretto, la Regione siciliana parteciperà con 100 milioni di euro. Se questa è la condizione per realizzare l'opera allora parteciperemo"

A parte al cifra irrisoria rispetto al totale dell'opera (3,8 miliardi!), ma perché questo aumento di capitale? Ci sono altri problemi di cui Ciucci democraticamente non riferisce ed a cui Lombardo malignamente allude?

Il settimanale L'Espresso indaga in questa direzione e suggerisce una risposta: il piano finanziario dell'opera è saltato completamente ed a causa della diminuzione del traffico nell'area dello stretto i tempi previsti per il recupero delle somme da parte dei privati potrebbe raddoppiarsi tranquillamente (“Il ponte si pagherà in 60 anni”, 26 ottobre 2009).

I numeri parlano chiaro:

Se si guardano i bilanci delle Ferrovie e della Caronte & Tourist, emerge un dato interessante: oggi il giro d'affari del trasporto sullo Stretto vale circa 120 milioni di euro. Una piccola torta, se si considera che la Stretto Spa dovrà restituire alle banche e ai soci pubblici (l'Anas e le Fs) circa 5 miliardi su 6,3.

Anche quando il ponte dovesse assicurarsi il 100% del traffico non sembra possibile che i 30 anni previsti possano bastare a ripagare il debito. Cosa che non fa certo gioire i detentori del capitale privato.

E quel 100% sembra un'idea ridicola. Da gennaio del 2010 partirà il progetto “Metropolitana dal mare” tra Messina e Reggio Calabria, un servizio che prevede collegamenti tra le due sponde con fermate a Messina porto, Papardo, Villa San Giovanni e Reggio Calabria ed il riavvio della tratta tra il porto di Messina e l’aeroporto di Reggio Calabria (“Consiglio di Stato sdogana Metropolitana del Mare”, EconomiaSicilia.com 30 ottobre 2009). Un sistema che finalmente permetterà l'avvio dell'integrazione economica dell'area dello stretto e che farà in modo che il traffico pendolare giornaliero non venga mai intercettato dal ponte. Una fetta non indifferente di quel 100%.

E non finisce qui.

L'Espresso nota anche un altro particolare, da inquadrare nel contesto geopolitico mediterraneo in cui la Sicilia sta cominciando ad inserirsi.

Le più recenti cifre sul traffico, infatti, dicono che il passaggio sullo Stretto sta diventando sempre meno cruciale nelle rotte per la Sicilia. Questo sia per il boom dei voli low-cost, che per le nuove autostrade del mare che saltano l'area del ponte e che fanno diventare il traffico locale una parte sempre più consistente di quel 100%. Le ferrovie in particolare si stanno ritirando a gran velocità da quell'area (si veda il post “In carrozza, si riparte”)

Il disimpegno all'attraversamento dello stretto tramite le navi di RFI non ha niente a che vedere con il ponte. Anzi. L'opera, per la quale manca ancore un progetto esecutivo, sarà pronta secondo i sogni di Matteoli nel 2016. Se nel frattempo si costringono gli utenti che ancora insistono masochisticamente a viaggiare sino a Roma tra i disservizi di Trenitalia ad utilizzare altri mezzi più comodi e più convenienti, non sarà poi facile richiamarli indietro.

Se veramente Trenitalia puntasse sul ponte, dovrebbe tenersi quei collegamenti via mare stretti. Dovrebbe migliorare il servizio invece di dismetterlo.

Quindi anche la fetta relativa ai passeggeri a lunga percorrenza potrebbe non essere intercettata dal ponte.

Rimane la fetta delle merci, che sta diminuendo grazie alle autostrade del mare e presto anche al potenziamento dei collegamenti cargo dagli aeroporti di Comiso e Trapani.

L'isola al momento non produce praticamente niente. Importa da nord tutto quello che consuma (tranne l'energia...). Purtroppo per qualcuno la situazione sta per cambiare. Nel giro di un decennio, da mercato di consumo la nostra economia si trasformerà completamente. I servizi nel campo della logistica e la produzione di beni lavorati e non (agricoltura, lapideo) diventeranno l'asse portante. E le banche lo sanno benissimo.

Il flusso di merci in discesa da nord è destinato a diminuire notevolmente. E le merci prodotte o scambiate negli hub logistici dell'isola non andranno a nord, bensì prevalentemente a sud, verso il nord-Africa, l'area dove si prevede il più forte tasso di sviluppo nei prossimi 10 anni. Di nuovo niente ponte, dunque. Ed anche questo le banche lo sanno benissimo.

Lo stesso Sud Italia, dotato dei porti di Gioia Tauro e Taranto, non avrà bisogno di fare passare le proprie merci dalla Sicilia. E dall'Europa le distanze per Tripoli e compagnia bella non sono così elevate da necessitare uno scalo intermedio.

Quel flusso del 100% si è ridotto ad un rivolo fituso.

La dichiarazione di Ciucci e Matteoli secondo molti ha una funzione politica: “Il governo è alla ricerca di un colpo a effetto e l'apertura in diretta televisiva del cantiere per un'opera accessoria si riduce a mera propaganda”, continua ancora L'Espresso.

Le banche sanno tutto, il governo sa tutto. Persino Trenitalia sa tutto. Ma allora perchè continuare a parlare di ponte?

Il vero regalo alla “mafia”, se così possiamo chiamare la corruzione politica italiana, non è la costruzione del ponte, ma il suo rinvio. Grazie alla presenza di una società ad hoc per qualcosa la cui realizzazione si è sempre rimandata nel tempo, si sono imboscate cifre tali da far impallidire le cosche più agguerrite. Oggi che si sa che il ponte non si farà mai, si tira ancora la carretta per cercare di ciucci-are ancora fondi neri.

Non aspettiamoci altro che omertà dall'opposizione, che sa benissimo anche lei. Gli anti-pontisti dei partiti nazionali sono come gli anti-mafiosi: scomparsa la minaccia, scomparsa un'arma propagandistica contro il governo.

Un po' come per Cuffaro. Ricordate: quando l'ex presidente si dimise, Prodi e Amato si imbufalirono ancora di più ed indispettiti lo “destituirono”. Capivano che un bersaglio facile come quello in Sicilia non lo avrebbero trovato più.

Ne vedremo scagliare tante, di prime pietre. Ne sentiremo ancora di questi annunci. Tutti a proposito di opere accessorie che in realtà con il ponte hanno poco a che spartire, dall'interramento della stazione di Messina allo spostamento a monte della linea Messina-Catania, un progetto risalente agli anni 70.

Proprio Cuffaro aveva visto giusto a proposito del tunnel tra la Sicilia e la Tunisia (si veda il progetto), reale o ideale che fosse: 150 km molto più concreti dei tre previsti nei sogni di Ciucci e Matteoli.


Il tunnel sotto lo stretto


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